domenica 31 ottobre 2010

Ambiente, divieto di uso di erbicidi e disserbanti.


Chissà perché in Svizzera dal 2001 vige il divieto di utilizzo degli erbicidi mentre in Italia se ne continua a fare un uso a volte sconsiderato?

Dal lontano 2001 la confinante Svizzera ha adottato con una propria ordinanza il divieto dell’utilizzo di erbicidi sia in campo privato che pubblico ed in particolare sulle strade, i sentieri e gli spiazzi come pure sui tetti, le terrazze e i depositi con delle deroghe che riguardano solo le strade cantonali e nazionali.
Il divieto assoluto di utilizzo dei prodotti fitosanitari (in cui rientrano gli erbicidi, i fungicidi, gli insetticidi ecc.) riguarda in particolare le riserve naturali, i cariceti e le paludi; le siepi ed i boschetti campestri e in una striscia di tre metri di larghezza lungo gli stessi, i boschi e in una striscia di tre metri di larghezza lungo i loro margini; le acque superficiali e in una striscia di tre metri di larghezza lungo le rive delle stesse.
E’ evidente che la normativa svizzera sia stata improntata ad evidenti esigenze di salute pubblica ed in particolare alla salvaguardia delle falde e quindi dell’approviggionamento idrico da ogni possibile contaminazione.
Tanto è ritenuta basilare la protezione delle riserve di acqua potabile e dei corsi d’acqua che, contestualmente al divieto, sono stati organizzati dei corsi di manutenzione del verde senza l’utilizzo di erbicidi in centinaia di comuni.
In Italia, invece, tale esigenza pare non si sia ancora manifestata, nonostante la riduzione progressiva delle fonti di approvviggionamento idrico e del rischio di desertificazione - di alcune aree del Paese in cui l’acqua potabile in alcuni periodi dell’anno sgorga a singhiozzo dai rubinetti.
Insomma la riduzione dell’acqua da bere e per usi domestici cammina di pari passo con la non remota possibilità di aumento dell’inquinamento dell’acqua disponibile tenuto conto che al di là di altre fonti di contaminazione, attraverso gli erbicidi finiscono in falda ogni anno migliaia di tonnellate di sostanze attive contenute nei diserbanti.
L’estensione del divieto di vendita di prodotti fitosanitari di tipo erbicida potrebbe costituire un primo passo per la riduzione dei rischi da contaminazione delle falde, sostiene Giovanni D’AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, tanto più che in Italia non esiste nel pubblico come nel privato una sensibilità ambientale tale da consentirne il progressivo abbandono spontaneo anche perché l’utilizzo di sostanze erbicide è pressochè totalmente legale.

giovedì 28 ottobre 2010

Incredibile ma vero. Quando l’autovelox sbaglia.


Incredibile ma vero. Quando l’autovelox sbaglia. Una cittadina multata da due comuni diversi della provincia di Cosenza (Amendolara e Rocca Imperiale) per la stessa identica infrazione e con due verbali identici.

Incredibile ma vero il caso che è stato rappresentato a Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”.
Non è dato sapere se quello che stiamo per raccontare abbia dei precedenti a livello nazionale, ma tanto basta per rimettere ancora una volta in discussione la presunta infallibilità dell’autovelox o degli apparecchi di rilevazione elettronica della velocità in generale.
Nel caso in questione, la proprietaria di un’autovettura si è vista recapitare a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, due verbali perfettamente identici in quanto riportanti il superamento del limite di velocità e quindi la violazione dell’art. 142 comma 8 del Codice della Strada allo stesso giorno, alla stessa ora, nello stesso tratto di strada, alla stessa velocità rilevata e dallo stesso agente accertatore ed elevati dai Corpi di Polizia Municipale di due comuni diversi in particolare il Comune di Rocca Imperiale ed il Comune di Amendolara.
Chiaramente la cittadina ha pensato subito di contattare lo “Sportello dei Diritti” per farsi predisporre i ricorsi a questi a dir poco sorprendenti atti di accertamento, rilevando l’evidente e grave vizio di forma determinato da un cosiddetto “copia - incolla” da parte degli accertatori dell’infrazione anche perché non è dato sapere quale dei due verbali corrisponderebbe al fatto storico effettivamente rilevato.
E’ palese, infatti, che la notifica dello stesso verbale da parte di due diversi Enti della P.A. abbia compromesso il “diritto alla difesa” costituzionalmente garantito all’art. 24 della Carta, non avendo, peraltro, la possibilità di conoscere con esattezza quale dovrebbe essere la presunta infrazione eventualmente da contestare essendo perfettamente identici i due verbali così come i fatti ivi riportati.

mercoledì 27 ottobre 2010

T.A.R. Lombardia: perde la casa popolare l'assegnatario che non ne fa uso continuo.

L’assegnatario di un alloggio popolare che risulti assente per lunghi periodi dalla residenza anche per motivi di lavoro perde il diritto alla casa.
Lo ha deciso il T.A.R. della Lombardia con la sentenza n. 7074 del 26 ottobre scorso in virtù del principio secondo cui la decadenza dell’assegnazione non presupporrebbe necessariamente un abbandono formale e definitivo ma sarebbe sufficiente che il destinatario dell’alloggio trascorresse molti mesi fuori, anche se per motivi di lavoro.
I giudici amministrativi lombardi con la decisione in commento hanno confermato la decadenza dall’assegnazione dell’alloggio pubblico di un cittadino egiziano residente a Milano che secondo l’ente di edilizia pubblica comunale aveva perso il diritto alla casa popolare dopo che in conseguenza di numerosi sopralluoghi era stato accertato che la sua famiglia era definitivamente tornata in Egitto e lui era costretto per ragioni lavorative a non essere presente nell’immobile che in realtà risultava occupato stabilmente dalla sua attuale compagna.
Il T.A.R. lombardo sulla base di questi presupposti ha confermato la decadenza dell’assegnazione, statuendo che “la decadenza comminata all'assegnatario di un alloggio di edilizia popolare che non abiti stabilmente l'appartamento, non presuppone un abbandono formale e definitivo, rilevando, a tal fine, anche comportamenti comunque indicativi di un disinteresse o di un non prevalente interesse del soggetto ad un'abitazione continua, attraverso utilizzi intermittenti e sporadici e ciò anche se la mancata stabile occupazione sia motivata da ragioni di vita e di lavoro e pertanto non sorretta da animus dereliquendi. Infatti la ratio sottesa alla normativa in questione risiede nell'interesse pubblico a che, in conseguenza della penuria di abitazioni destinate ai meno abbienti, gli alloggi di edilizia residenziale pubblica vengano, e restino, assegnati a chi intende farne un uso continuativo, non già un uso sporadico, occasionale o stagionale.”
L’importante principio enunciato in sentenza, secondo Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, obbligherà tutti gli assegnatari di una casa popolare ad essere effettivamente presenti e a risiedere presso l’alloggio affidato.
Non è raro, infatti, che per colpa di alcuni furbi che risultano formalmente aggiudicatari ma senza occupare gli immobili che spesso addirittura subaffittano, cittadini onesti e bisognosi e le rispettive famiglie sono costretti a rimanere senza casa in un periodo di grave crisi economica nel quale la carenza di alloggi popolari è diventata un’esigenza inderogabile da colmare.

martedì 26 ottobre 2010

Integratori alimentari e loro benefici: per l’EFSA" mancano prove scientifiche".


Massicce campagne pubblicitarie ce li propinano come manna dal cielo per migliorare le Nostre diete, la concentrazione, le energie, le prestazioni quotidiane, la vista, il controllo della glicemia, del peso corporeo, della funzionalità intestinale o del cuore e chi più ne ha ne metta, ma i benefici promessi da integratori alimentari quali vitamine, minerali, fibre alimentari specifiche o lattobacilli vivi, si traducono spesso in delusione o in effetti per così dire placebo poiché in realtà rimangono solo sulle diciture delle confezioni ed in concreto poco o addirittura nulla.
Almeno è questa l’opinione espressa da un comitato scientifico di esperti dell'EFSA, l'Autorità europea per la sicurezza alimentare che dopo uno studio approfondito su 808 indicazioni funzionali generiche sulla salute ha stilato pareri negativi per gran parte delle indicazioni analizzate basandosi in particolare: sulla scarsità delle informazioni fornite, a partire dall'impossibilità di identificare la sostanza specifica su cui è basata l'indicazione (ad esempio per le fibre alimentari spesso non viene specificato il tipo di fibra); la mancanza di prove che l'effetto indicato sia davvero benefico per mantenere o migliorare la funzionalità organica (ad esempio indicazioni sull'eliminazione dell'acqua per via renale); la mancanza di precisione relativa all'indicazione sulla salute (ad esempio indicazioni riferite a termini come energia e vitalità); la mancanza di studi condotti sull'uomo con misurazioni affidabili del rivendicato effetto benefico sulla salute.
Con questa terza serie di pareri, l'agenzia ha valutato ad oggi oltre un terzo delle indicazioni sulla salute sulla totalità di quelle incluse nell’elenco compilato dagli Stati membri e dalla Commissione europea e si avvia allo studio completo entro la fine di giugno del 2011.
Nonostante i tanti pareri negativi, gli italiani sembrano essere una popolazione conquistata dagli integratori. Da una recente statistica commissionata dall'AIIPA (Associazione Italiana Industrie Alimentari) è infatti emerso che oltre un terzo degli intervistati utilizza con regolarità gli integratori alimentari di vario genere.
Il profilo del consumatore - tipo è quello di una persona colta, soprattutto tra i 45-54 anni e i 55-69 anni, che vanta abitudini alimentari buone o addirittura ottime e uno stile di vita sano.
Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” si domanda quale sia l’utilità - se non in stretti termini commerciali - degli integratori alimentari, tenuto conto che al di là dell’assenza pressoché generale di riscontri scientifici suffragati anche dall’autorevole agenzia europea, la Nostra alimentazione è così variegata e completa, che a detta degli esperti nutrizionisti risponde ai fabbisogni dell'organismo, per non dire che eccede il normale apporto quotidiano dei nutrienti di cui abbiamo bisogno.

domenica 24 ottobre 2010

Eolico sui tetti.


Se l’U.E. ha stabilito che entro il 2021 i palazzi dovranno consumare energia in base a quanta ne produrranno perché non pensare anche al vento oltre al fotovoltaico?
La rivoluzione delle fonti energetiche rinnovabili in ambito urbano potrebbe partire sin da subito in ogni angolo del globo, almeno a considerare una serie interminabile di articoli, indagini scientifiche ed inserzioni pubblicitarie reperibili su internet.
La questione che però Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” si pone è che il passaggio tra il dire ed il fare non appare di così immediata realizzazione, se si pensa che nella stragrande maggioranza della cittadinanza quando si parla di fonti d’energia pulita in ambito urbano scatta immediatamente il pensiero al fotovoltaico sui tetti, mentre concetti quale eolico o geotermico appaiono relegati nella mente dei cittadini nell’ambito ristretto ed allo stesso ingombrante per l’ambiente dei grandi impianti.
Secondo alcuni studi, però, al calo della potenza media del vento negli ultimi 30 anni stimato nel 5-15% in conseguenza dei mutamenti climatici e all’infittirsi di piante ed edifici costruiti dall’uomo, nonostante ciò il rapporto sulle energie rinnovabili del GSE segnala l’incredibile crescita del settore, quantificata a 4.898 MW di produzione con un aumento della potenza installata anche nel primo semestre del 2010 ancora del 10% sul territorio nazionale, a comprova che il vento è una preziosissima fonte di approviggionamento energetico costante.
E se a ciò si aggiunge che la normativa europea imporrà entro il 2021 l’obbligo per ogni edificio di consumare energia solo in base a quanta ne saprà produrre, il passaggio a fonti alternative anche al “sole”, dovrà essere pressoché conseguente.
Nell’immediato, quindi, dovrà mutare nell’immaginario degli italiani il concetto inculcato che solo il fotovoltaico = energia pulita nel contesto urbano e quindi dovrà essere incentivata anche da parte degli installatori l’opportunità dettata dagli impianti eolici da montare direttamente sul tetto del condominio.
Non solo pannelli e pannelli ma come dovrebbe essere noto, grazie a una mini turbina eolica si può trasformare l’energia cinetica del vento in energia meccanica che, azionando l’asse di un alternatore, è in grado di produrre energia elettrica.
Chiaramente gli impianti hanno una diversa dimensione in relazione all’energia che s’intende produrre e si distinguono in: micro eolico (0-qualche centinaio di Watt); mini eolico (1-20 kW); medio eolico (20-200 kW) e grande eolico (>200 kW).
Sui palazzi tendenzialmente si posso montare impianti micro o mini eolici di potenza fino a 5 kW di picco.
Sino ad oggi, il problema della loro poca diffusione è stata legata principalmente a fattori estetici e di decoro urbano anche perché siamo stati abituati a pensare a mastodontiche pale meccaniche sorrette da enormi pali di sostegno che come giganteschi mulini a vento turbano il paesaggio circostante.
La soluzione tecnica pensata per risolvere tale problema che è anche una questione di difesa ambientale si è trovata attraverso la rotazione di 90° della turbina, disponendola orizzontalmente, e installandola sul tetto con le due estremità assicurate alla copertura e con costi di installazione per impianti mini - eolici che sono compresi tra i 2.000 ai 3.000 euro per kW.
Ma v’è di più: una volta connessi alla rete tali impianti possono usufruire degli incentivi statali per le energie rinnovabili con un meccanismo simile al Conto Energia dedicato al fotovoltaico, garantendo una tariffa omnicomprensiva di 0,30 euro per ogni kWh di energia non consumata e immessa in rete per un periodo di 15 anni.

sabato 23 ottobre 2010

Palme e punteruolo rosso "Una strage silenziosa".


Dopo l’allarme lanciato sul “Punteruolo Rosso” e l’interrogazione del consigliere regionale Gianfreda, continuano ad arrivare segnalazioni sulla piaga delle palme.


Un mese fa Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”segnalava l’emergenza nazionale “Punteruolo Rosso” ed i rischi economici che questo piccolissimo, ma temibilissimo insetto, avrebbe portato nel Nostro Paese se si fosse continuato a non intervenire sul Territorio con massicce campagne di debellazione del coleottero.
A cogliere immediatamente l’appello lanciato, unico e solo in Italia, è stato il Presidente della IV commissione permanente della Regione Puglia il consigliere regionale Aurelio Gianfreda (Turismo, Industria Alberghiera, Commercio, Industria, Artigianato, Agricoltura, Acqua, Acquacultura e Pesca) che ha presentato un’interrogazione all’Assessore all’agricoltura per valutare l’opportunità d’interventi urgenti in materia al fine di porre un argine al fenomeno che comporterà quasi certamente costi sociali di notevole entità se non verrà fermato in tempo utile.
Dopo l’allarme, sono arrivate decine di segnalazioni da ogni parte d’Italia e a mò d’esempio abbiamo deciso di pubblicare alcune foto di due palme di 65 anni d’età che in data odierna sono state letteralmente sradicate da un autogrù con grande rammarico per la famiglia proprietaria, dopo che erano morte a causa del ritardo nell’intervento di salvataggio.

venerdì 22 ottobre 2010

Sesso on-line e ragazze in web-cam in cambio di soldi:per la Cassazione è sfruttamento della prostituzione


Un fenomeno in continua espansione il sesso in rete tramite web-cam. Un giro d’affari in vorticosa crescita in Italia come nel resto del mondo, ma la Corte di Cassazione con una decisione recente pone un argine, almeno dal punto di vista penale al sesso on-line a pagamento che vede coinvolte e sfruttate migliaia di donne in ogni luogo ed è per questo che Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” ritiene particolarmente significativo il pronunciamento in questione.
Secondo la Suprema Corte è punibile per sfruttamento della prostituzione il soggetto reo di aver pagato per vedere prestazioni sessuali in videoconferenza così come chi offre il collegamento in rete ed i relativi.
La Terza Sezione Penale della Cassazione, con la decisione in discussione ha, infatti, confermato la condanna inflitta dalla Corte d’Appello di Firenze nei confronti di un gestore di un nightclub, assieme alla sua segretaria e al responsabile della security.
Gli imputati erano stati condannati per aver favorito e sfruttato la prostituzione attraverso questo tipo di esibizioni fatte nel locale da spogliarelliste ma avevano proposto ricorso contro il pronunciamento di merito argomentando che questo tipo di esibizioni non potevano rientrare nel reato di sfruttamento della prostituzione.
Gli ermellini hanno motivato la decisione secondo il principio per cui le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta e immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilità di richiedere il compimento di atti sessuali determinati, assumono il valore di atto di prostituzione e configurano il reato di sfruttamento della prostituzione.
Si tratta di atti, dunque, che configurano il reato di sfruttamento della prostituzione a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento creando i necessari collegamenti via Internet o ne abbiano tratto guadagno.
Ma v’è di più. I giudici di piazza Cavour precisano che è da ritenersi irrilevante la circostanza che chi si prostituisce e il fruitore della prestazione si trovino in luoghi diversi, in quanto il collegamento in videoconferenza consente all’utente di interagire con chi si prostituisce in modo tale da poter richiedere a questi il compimento di atti sessuali che vengono immediatamente percepiti da chi ordina la prestazione sessuale a pagamento.

martedì 19 ottobre 2010

Alcol e guida, NO alla sospensione della patente sotto l'1,5 grammi per litro.


Interessante sentenza della Cassazione, la n. 21447 di oggi 19 ottobre 2010 secondo Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”.
Secondo il principio enunciato dalla Suprema Corte, la sospensione della patente di guida non è un atto dovuto nel caso di guida in stato di ebbrezza alcolica. Infatti la misura non dev’essere disposta nel caso in cui il tasso di alcool non superi la maggiore soglia di 1,5 grammi per litro.
La decisione della seconda sezione civile in commento ha accolto il ricorso di un automobilista, sorpreso a guidare in stato di ebbrezza alcolica, annullando la sospensione della patente disposta dal Prefetto e confermata da una sentenza del giudice di pace di Alberga.
Per il magistrato onorario “il Prefetto di Savona, a seguito dell'accertamento da parte dei Carabinieri di Albenga della contravvenzione di cui all'art. 186 del C.d.S., aveva disposto a carico” dell’automobilista “la sospensione della patente di guida per giorni 15 e gli aveva ordinato contestualmente di sottoporsi a visita medica presso la Commissione Medica Locale Patenti di guida di Savona”.
Nel caso in questione, dal verbale di contestazione era emerso che i risultati dell’alcooltest cui si era sottoposto l’uomo avevano evidenziato un tasso alcolico di 1,28 e di 1,31 grammi per litro nelle due prove effettuate e comunque superiori a 0,50 grammi per litro, limite dello stato di ebbrezza. Per questo nel merito era stata confermata la sospensione del Prefetto, “laddove è previsto che questo dispone la sospensione in via cautelare della patente nelle ipotesi di reato diverse dalle lesioni colpose e dall'omicidio colposo, nelle quali rientra lo stato di ebbrezza, configura tale ordinanza come un atto dovuto”.
I giudici di legittimità ripercorrendo l’iter procedimentale seguito dalla Prefettura rilevano che all’automobilista era stata contestata la violazione dell'art. 186 del C.d.S., consistente nella guida di autoveicolo in stato di ebbrezza, che costituisce fatto penalmente rilevante, cui può conseguire, ai sensi della stessa disposizione la sospensione della patente di guida, a titolo di sanzione amministrativa accessoria in seguito all'accertamento del reato.
Al ricorrente era stata però irrogata una sanzione in base all'art. 223 dello stesso codice, nel qual caso la misura, di carattere preventivo ed irrogabile dal Prefetto, ha natura cautelare e trova giustificazione nella necessità di impedire che, nell'immediato, prima ancora che sia accertata la responsabilità penale, il conducente del veicolo, nei cui confronti sussistano fondati elementi di una evidente responsabilità in ordine ad eventi lesivi dell'incolumità altrui, continui a tenere una condotta che può arrecare pericolo ad altri soggetti.
I Giudici di piazza Cavour sottolineando la palese diversità sia della natura della sanzione nell'uno e nell'altro caso, sia dei presupposti per la sua irrogazione, legati per la sospensione in via cautelare della patente di guida di cui al nono comma dell'art. 186 del C.d.S. sia all'accertamento di un valore corrispondente ad un tasso alcoolemico superiore a 1,5 grammi per litro, e per la stessa sanzione prevista dall'art. 223 terzo comma alla configurabilità di "altre ipotesi di reato" rispetto a quelle richiamate dal primo comma dello stesso articolo, hanno accolto il ricorso dell’automobilista annullando la sanzione della sospensione della patente di guida.

lunedì 18 ottobre 2010

SOS inquinamento a Taranto: video di una nube che si alza dall’ILVA nella notte tra il 7 e l'8 ottobre.


Una nube che si alza dall’ILVA nella notte di Taranto. Continuiamo a pubblicare i link dei video girati con una telecamera a raggi infrarossi dal presidente Fondo Antidiossina Taranto, prof. Fabio Matacchiera questa volta la notte tra il 07 e 08 ottobre.


Continuiamo e continueremo a pubblicare i link dei video girati dal presidente del Fondo Antidiossina Taranto, prof. Fabio Matacchiera fino a quando non avremo chiarezza su una situazione che non possiamo non ritenere fonte di preoccupazione non solo tarantini.
Dopo i video del 30 aprile e dell’11 settembre 2010 questa volta segnaliamo la nube scura che si alza dall’ILVA la notte tra il 07 e 08 ottobre.
Anche questa volta la scena e pressoché invariata se non peggiorata come dimostra il video che potrete vedere ciccando il seguente link su youtube http://www.youtube.com/watch?v=SqfVPmN9suI
Giovanni D’AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori ritiene un obbligo morale e civile riportare agli occhi dell’opinione pubblica nazionale la preoccupante situazione che vive la zona industriale di Taranto e quindi il resto della Puglia che certamente è interessata dai residui fumosi dell’area che come è noto pare risulti tra quelle messe più a dura prova a livello d’Europa.
Al contempo confermiamo il Nostro sostegno civile nei confronti di chi come Fabio Matacchiera ed il Fondo Antidiossina Taranto si continua a battere per la difesa del proprio Territorio senza se e senza ma.

Premi assicurativi e sesso dell’assicurato: per l'avvocatura generale presso Corte Europea di Giustizia violerebbe il divieto di discriminazioni fonda


Premi assicurativi e sesso dell’assicurato. Per l’avvocato generale Juliane Kokott, non sarebbero compatibili con i diritti fondamentali riconosciuti dall'Unione le clausole dei contratti di assicurazione che tengono in conto, a titolo di fattore di rischio, del sesso dell'assicurato poiché violerebbe il divieto di discriminazioni fondate sul sesso

Un’importante caso arriva a conclusione in una causa intentata da un’associazione di consumatori belga e due soggetti privati che hanno proposto dinanzi alla Corte Costituzionale belga per l'annullamento di una norma nazionale di trasposizione di una direttiva U.E. che prevederebbe una deroga alla direttiva 2004/113/CE che come noto vieta le discriminazioni fondate sul sesso per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura.
La deroga in questione che prenderebbe spunto dalla direttiva stessa secondo cui gli Stati membri possono consentire differenziazioni legate al sesso nei premi e nelle prestazioni assicurative, qualora il sesso costituisca un fattore di rischio determinante e tale circostanza sia supportata da pertinenti e accurati dati attuariali e statistici.
In seguito a ciò, la Cour constitutionnelle belga ha chiesto alla Corte di Giustizia di verificare la compatibilità della deroga prevista dalla direttiva con norme di rango superiore ed in particolare, con il principio della parità di trattamento tra uomini e donne sancito dal diritto dell'Unione
Nelle conclusioni rassegnate il 30 settembre scorso, l'avvocato generale Kokott ha rilevato anzitutto la grande importanza del principio della parità di trattamento tra uomini e donne nel diritto dell'Unione.
L'avvocato generale ha ritenuto sottolineare che la disciplina derogatoria in discussione non si riferisca ad evidenti differenze biologiche tra gli assicurati, bensì riguardi piuttosto ipotesi nelle quali sia eventualmente possibile sotto il profilo statistico attribuire un rischio assicurativo differente a seconda del sesso dell’assicurato. Ma come è noto vi sarebbero numerosi altri fattori che giocano un ruolo importante per la valutazione dei rischi assicurativi e tra questi l’aspettativa di vita degli assicurati sarebbe fortemente influenzata da circostanze di natura economica e sociale riguardanti il singolo individuo, quali, ad esempio, natura ed entità dell’attività lavorativa esercitata, contesto familiare e sociale, abitudini alimentari, consumo di generi voluttuari e/o di droghe, attività nel tempo libero, attività sportiva.
L'avvocato generale conclude quindi che non sia giuridicamente appropriato associare i rischi assicurativi al sesso di una persona e perciò eventuali differenze tra persone che possano essere associate al sesso di queste soltanto sotto un profilo statistico non potrebbero portare ad un diverso trattamento degli assicurati di sesso maschile o femminile per quanto riguarda l'offerta di prodotti assicurativi.
In tale contesto, l'avvocato generale evidenzia in particolare che il sesso è una caratteristica che, al pari della razza e dell'origine etnica, è inscindibilmente connessa con la persona dell'assicurato e sulla quale questi non può influire in alcun modo. A differenza ad esempio dell'età, il sesso di una persona non sarebbe inoltre soggetto ad alcuna modifica naturale.
In conclusione, l'avvocato generale ritiene che l'applicazione di fattori di rischio correlati al sesso per quanto riguarda premi e prestazioni assicurative sia incompatibile con il principio della parità di trattamento tra uomini e donne sancito dal diritto dell'Unione e perciò propone alla Corte di dichiarare invalida la corrispondente norma derogatoria contenuta nella direttiva.
Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale Tutela del Consumatore di “Italia dei Valori” e fondatore dello “Sportello dei Diritti” pur sottolineando che le conclusioni dell’avvocatura generale non siano vincolanti, ritiene comunque che i principi ivi annunciati siano imprescindibili per il pieno espletamento del principio di parità di trattamento quale conseguenza necessaria del principio d’uguaglianza dei cittadini ed auspica che qualsiasi sia la decisione, il Governo introduca una norma che vieti un tale tipo di deroga al principio generale e che incida definitivamente sui contratti assicurativi italiani.

mercoledì 13 ottobre 2010

Multe: ricorso al GdP vi è solo l’obbligo del pagamento del contributo unificato ma non delle spese forfettiziate.


Ricorsi ai GdP per opposizioni a sanzioni amministrative: vi è solo l’obbligo del pagamento del contributo unificato ma non delle spese forfettiziate per le cause fino a 1.033,00 euro.
Niente più marca da bollo da 8,00 euro per i ricorsi a sanzioni amministrative e quindi anche a quelle del Codice della Strada che non superino il valore di 1033,00 euro.
Lo chiarisce una nota del Ministero della Giustizia con la circolare n. 4275 del 28 settembre 2010 che ha inoltrato un chiarimento rivolto a tutti gli Uffici Giudiziari avverso le richieste di numerosi Uffici del Giudice di Pace in merito alla modifica normativa di cui al numero 2) lettera b) comma 212 dell’art. 2, legge 23 dicembre 2009 n. 191 (legge finanziaria 2010), che ha introdotto il comma 6-bis dell’articolo 10 del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 nella parte in cui prevede che gli atti del processo di opposizione alle sanzioni amministrative siano soggetti “soltanto al pagamento del contributo unificato, nonché delle spese forfettizate secondo l’importo fissato dall’articolo 30” del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia.
Secondo la corretta interpretazione del Ministero, quindi, le cause di competenza del Giudice di Pace previste dall’art. 24 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il cui valore non ecceda la somma di euro 1.033,00 sono soggette al pagamento del solo contributo unificato.
Infatti, con la norma contenuta nella Finanziaria 2010 rimane comunque vigente la specifica previsione normativa di parziale esenzione delle spese disciplinata dall'art. 46 della legge 374/1991 che sancisce l’obbligo del pagamento del contributo unificato ma non delle spese forfettizzate che sino a ieri come è noto venivano evase attraverso il pagamento di una marca da bollo d’importo pari ad 8,00 euro a titolo di anticipazione a carico del ricorrente.
Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale Tutela del Consumatore di “Italia dei Valori” e fondatore dello “Sportello dei Diritti” s’interroga quindi su che fine faranno tutti soldi spesi dai cittadini che sono stati obbligati sinora ad anticipare anche il costo della marca da bollo di 8 euro per ricorsi avverso multe e sanzioni spesso illegittime e chiede lumi al Ministero della Giustizia sulle procedure per richiedere il rimborso di quanto già indebitamente percepito dalla P.A.

sabato 9 ottobre 2010

Sicurezza stradale: necessario l’etilometro ma gli automobilisti chiedono più certezze.


Da anni Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale Tutela del Consumatore di “Italia dei Valori” e fondatore dello “Sportello dei Diritti” è impegnato in un’ardua battaglia impegnandosi su due fronti: da una parte contribuire a garantire la sicurezza stradale tutelando al contempo la certezza del diritto e dall’altra tentare di proteggere gli automobilisti dagli abusi ed illegittimità degli enti accertatori delle infrazioni verificando la correttezza delle procedure e la regolarità degli atti.
Proprio per queste ragioni, in questi giorni ci siamo interrogati sull’utilizzo dell’etilometro a fiato che ritenevamo e continuiamo a ritenere imprescindibile strumento deterrente per l’abuso nel consumo di alcool da parte di alcuni incauti automobilisti, specie di giovane età, tant’è che da quando gli ultimi governi hanno deciso un vero e proprio “giro di vite” sempre più stringente sulla limitazione dell’uso di sostanze alcoliche per chiunque si mettesse alla guida di un veicolo si è verificata una drastica riduzione degli incidenti conseguenti a tali abusi.
Ciò che però ci pare opportuno mettere in evidenza è l’effettiva valenza probatoria nell’accertamento dello “stato di ebbrezza” dell’etilometro a fiato alla luce della segnalazione di numerosi casi in cui alcuni automobilisti, anche completamente astemi, a seguito dell’esame del cosiddetto “palloncino” hanno subito la contestazione del reato di cui all’articolo 186 del Codice della Strada con conseguenze pesantissime sia per ciò che riguarda la propria patente che per la propria fedina penale, anche al fine di evitare che comportamenti assolutamente non colposi comportino pene per soggetti non responsabili di alcuna violazione al Codice della Strada anche perché per chi viene sorpreso per guida “in stato di ebbrezza” la conseguenza naturale è anche un procedimento penale che porta nella gran parte dei casi ad una condanna certa.
Chi giura di aver mangiato un’insalata innaffiata da abbondante aceto, chi aveva appena finito di degustare un dolciume al liquore o peggio ancora chi colpito da una bronchite sia stato costretto ad usare uno sciroppo alcoolico senza conoscerne la composizione chimica, sono centinaia in tutto il Paese i casi che potrebbero confermare che l’alcooltest non sia così infallibile come qualcuno lo ha voluto dipingere e molti cittadini assolutamente incolpevoli siano stati costretti a pagare comunque le conseguenze.
Ciò anche alla luce della letteratura scientifica che è orientata pressoché in maniera generale a ritenere che la concentrazione di alcool contenuta nell’aria espulsa dai polmoni può variare a seconda di svariate variabili che dipendono da fattori diversificati e perciò soggettivi.
Un’interessante e corposa sentenza di un Giudice di Pace di Ancona partendo da assunti di natura scientifica c’invita ed invita soprattutto il legislatore e le autorità impegnate negli accertamenti sulle Nostre strade ad una seria riflessione in merito alla necessità di un miglioramento della disciplina che appare a questo punto lacunosa in merito alla necessità di ulteriori analisi sugli automobilisti beccati con un tasso alcolemico superiore ai 0,5 grammi per litro.
Secondo Giovanni D’Agata, infatti, l’unico metodo certo e scientifico per appurare l’effettivo superamento del limite è l’analisi del sangue che potrebbe essere effettuata in loco al momento dell’accertamento attraverso postazioni mobili o presso il più vicino nosocomio.
Nella decisione cui ci riferiamo il Giudice di Pace di Ancona ha accolto il ricorso di un automobilista che sarebbe stato beccato alla guida “in stato di ebbrezza” condannando la Prefettura al pagamento delle spese processuali, partendo dall’assunto della scarsa attendibilità dello strumento che misura la presenza di alcool nel sangue con l’aria espirata e quindi per difetto di prova.
Nelle sei pagine della sentenza il giudice onorario riferendosi anche ai principi della fisica e a citazioni non prettamente giuridiche ma alla bibliografia scientifica maggioritaria, conclude motivando in diritto che non “è possibile parlare di un valido risultato analisi” per l‘esame in questione.
Nella persuasiva motivazione sostiene il giudice che “in virtù della scienza umana, affinché i militi possano procedere ad esatta misurazione del tasso alcolemico presente nell’aria espirata dovrebbero conoscere con esattezza: l’orario effettivo della bevuta, se lo stomaco era vuoto, e nel caso fosse pieno la quantità di cibo ingerita, la gradazione alcolica della bevanda, il peso del soggetto e il sesso, la percentuale dell’acqua corporea, le velocità del metabolismo e lo svuotamento gastrico”. Nel verbale di accertamento sono indicate solo le generalità della persona sottoposta ad esame ma nessun riferimento a quei fattori, “imprescindibili per calcolare il tempo necessario all’organismo affinché l’alcol metabolizzato possa essere espirato tramite i polmoni”. Per questo il giudice “non ritiene la prova fornita dall’etilometro idonea a giustificare il ritiro della patente, non per difetto dell’apparecchio in sé ma per difetto di applicazione della scienza di fisiologia umana”. Il giudice ritiene che “l’etilometro, come applicato dai militi, non osservando i principi della scienza empirica è in grado di misurare solo l’aria presente all’interno del cavo orale”.

venerdì 8 ottobre 2010

Autovelox, nulla la multa in centro abitato se non vi è la contestazione immediata.


La tesi sostenuta più volte da Giovanni D’AGATA, componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” secondo cui nei centri urbani è obbligatoria la contestazione immediata dell’infrazione per superamento del limite di velocità contestata a mezzo autovelox è confermata dalla recente sentenza 23 giugno 2010, n. 467 pronuncia del Tribunale di Viterbo che ha accolto l’appello proposto dal proprietario di un’autovettura riformando in questo modo la sentenza del giudice di pace impugnata, sulla base dell’assunto che, in base ad un’interpretazione sistematica della normativa di riferimento in particolare del comma 4, in maniera congiunta al comma 1 del medesimo articolo 4 della legge 1.8.2002, n. 168, qualora l’infrazione rilevata con apparecchiatura elettronica sia stata rilevata su strada urbana permane l’obbligo della contestazione immediata, pena l’inapplicabilità della sanzione.
Tale principio scaturente ictu oculi dalla normativa in questione è spesso stato disatteso da buona parte della giurisprudenza, anche di legittimità che con decisioni spesso contrastanti si è occupata della materia.
Infatti, la Corte di Cassazione in diverse decisioni (tra le pronunce più recenti si veda Cass. civ., sez. II, sentenza 30.4.2009, n. 10156, nonché Cass. civ., sez. II, 27.10.2005, n. 20873) ha sostenuto la superfluità della contestazione immediata dell’infrazione se rilevata con una delle apposite apparecchiature automatizzate, agganciando il principio - con un interpretazione singolare e restrittiva - al tenore letterale del quarto comma dell’articolo quattro della legge 1.8.2002, n. 168 che prevede in caso di utilizzo di autovelox o simili sistemi l’assenza dell'obbligo di contestazione immediata di cui all'articolo 200 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285.
Tale orientamento, però ha finito con l’apparire quale un ulteriore contributo ai comuni e agli altri enti che utilizzano le cosiddette multe seriali al fine di “far cassa” anche all’interno dei centri urbani.
La sentenza in discussione, secondo Giovanni D’AGATA, riporta la questione ad un riequilibrio e nell’ambito di un interpretazione che riteniamo sostanzialmente più corretta dell’intero impianto della normativa.

mercoledì 6 ottobre 2010

Giro di vite della Cassazione sui dispetti tra coinquilini



Farà ridere i più l’epilogo di una classica vicenda tra dirimpettai, ma riderà di meno, senz’alcun dubbio, il cittadino che per reagire a dei torti subiti aveva sparso della terra sulle loro auto e per aver epitetato “vigliacchi” i vicini rischia di essere condannato a seguito di una sentenza della cassazione.
La rigorosa sentenza della cassazione penale ha infatti posto le basi per un giro di vite nei confronti degli scherzi e dispetti tra condomini secondo Giovanni D’AGATA, componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”.
Nel caso in esame, gli ermellini hanno deciso di annullare una sentenza di assoluzione del Giudice di Pace resa nei confronti di un vicino dispettoso.
Come detto, il 32enne aveva sparso della terra sulle auto dei vicini per reagire ad un torto subito, che avevano provveduto a querelarlo sino farlo imputare per il reato d’imbrattamento e deturpamento di cui all’articolo 639 del codice penale e per il reato d’ingiuria avendoli apostrofati come “vigliacchi”.
Il Giudice di Pace aveva deciso per l’assoluzione "perchè il fatto non costituisce reato", poiché "la terra buttata sulle vetture avrebbe potuto facilmente essere rimossa e dunque non aveva scalfito i veicoli". Contemporaneamente l’imputato era stato assolto anche dall'accusa di ingiuria poiché secondo la corte di merito il termine “vigliacchi” sarebbe entrato nell’"uso comune".
La Suprema Corte, investita da un ricorso ha annullato la decisione di merito rinviando la causa per un nuovo esame.
I giudici di piazza Cavour hanno ritenuto "illegittima" l'assoluzione dall'accusa di imbrattamento e deturpamento "solo in base al dato inerente alla facile rimozione delle stesso elemento usato per imbrattare, vale a dire la terra sguinzagliata sui veicoli altrui", ciò che "resta sufficiente ad integrare la fattispecie criminosa - scrive la Corte - è proprio la condotta di materiale mutamento delle condizioni in cui il bene altrui si trovava, in modo da alterarne l'aspetto".
Per quanto concerne il reato d'ingiuria, il giudice di legittimità sostiene che "una prassi o un uso comune del linguaggio non vale ad escludere l'offesa alla dignità e all'onore del soggetto passivo, trattandosi di termine ('vigliacchi') evidentemente dispregiativo".

domenica 3 ottobre 2010

Quando il Tutor sbaglia.



Contestato erroneamente il superamento del limite di velocità ad un’autovettura berlina scambiata per autoveicolo con rimorchio ed il cittadino costretto comunque a fare ricorso.
Sono anni che continuiamo a sostenere che gli apparecchi di rilevazione elettronica della velocità sono tutt’altro che affidabili e sempre da anni rivolgiamo appelli alla P.A., ai Prefetti ed ai Giudici di Pace affinché verifichino puntualmente ogni passaggio dell’iter procedimentale per la contestazione delle infrazioni a mezzo autovelox o comunque affidate a dispositivi elettronici di controllo.
Così Giovanni D’Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale Tutela del Consumatore di “Italia dei Valori” e fondatore dello “Sportello dei Diritti” sull’ultima, ma non la più risibile, segnalazione in merito ad una multa per superamento del limite di velocità elevata sull’autostrada con il famigerato Tutor.
Questa volta, la Polstrada ha sanzionato un’autovettura berlina scambiandola per un autoveicolo con rimorchio, raddoppiando così la sanzione ivi prevista dall’art. 142 comma 11 del Codice della Strada che prevede per l’appunto il raddoppio automatico della multa quando a superare il limite di velocità è un veicolo con rimorchio.
Me v’è di più, nel verbale citato che avrebbe comportato peraltro la sospensione della patente di guida, il proprietario dell’autoveicolo avrebbe superato un limite che non viene neanche riportato in alcun punto dell’atto di contestazione.
È evidente, dunque, che il verbale de quo risulti palesemente viziato da gravi errori che ne inficiano il contenuto e che lo rendono invalido e perciò nullo, ma il problema è che a pagare sempre per i non rari refusi della P.A. è il cittadino - automobilista il quale preoccupato per le conseguenze di un’infrazione a lui non imputabile, è stato costretto ad inoltrare per il tramite dello “Sportello dei Diritti” un ricorso amministrativo ex art. 203 del Codice della Strada, predisposto a titolo gratuito dal sottoscritto, confidando nell’inevitabile ravvedimento dell’organo amministrativo superiore, in questo caso il Prefetto di Foggia.

sabato 2 ottobre 2010

Lavoro: non è immune da condanna per ingiuria il datore di lavoro che prende a parolacce il dipendente


Se alcuni superiori, tracotanti di potere datoriale, si sentivano immuni da condanne per aver bistrattato i propri dipendenti finanche con ingiurie, a seguito della sentenza della Cassazione Penale numero 35099 del 29 settembre 2010 dovranno dimostrarsi ben più educati sul luogo di lavoro.
Così Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di IDV e fondatore dello “Sportello Dei Diritti” commentando la decisione della Suprema Corte secondo cui il datore di lavoro che insulta il dipendente ricorrendo anche ad offese volgari risponde di ingiuria. Non costituisce scriminante, infatti né il contesto lavorativo o la spiccata sensibilità del dipendente ed anzi l’ambiente di lavoro deve garantire pari dignità a tutti i soggetti coinvolti.
Nel caso di specie, gli ermellini hanno rigettato il ricorso di un imprenditore condannato per ingiuria a una multa ed hanno quindi confermato anche il diritto al risarcimento della persona offesa.
La lavoratrice era stata richiamata dal superiore e questi, in conseguenza della sua reazione aveva replicato “sei una str.. se te la prendi”.
La difesa aveva sostenuto che l’espressione usata era ormai tipizzata nel linguaggio comune romanesco ed era stata detta nel senso di una frase “bonaria, rassicurante, e non offensiva”.
I giudici di piazza Cavour nel rigettare la tesi difensiva, hanno motivato che la dipendente non era “affatto tenuta a sottostare all’uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtù delle generali scelte di espressione del datore di lavoro” ed hanno sottolineato che “nel nostro ordinamento il contesto lavorativo è caratterizzato da una pari dignità dei suoi protagonisti, da una pari effettività di tutta la normativa senza che possa invocarsi, per nessuna delle parti, una desensibilizzazione alle altrui trasgressioni”.

venerdì 1 ottobre 2010

Casalinga e moglie ma non ha diritto alla metà dell’immobile


Casalinga e moglie ma non ha diritto alla metà dell’immobile costruito in costanza di matrimonio sul terreno del marito.
Se gli italiani ritengono storicamente quello della casalinga un vero e proprio lavoro che contribuisce al buon andamento della vita familiare e quindi allo sviluppo dei singoli componenti, secondo Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di IDV e fondatore dello “Sportello Dei Diritti”, la singolare sentenza della Cassazione n. 20508 del 30 settembre 2010 ne sminuisce in un sol colpo il diritto a ritenersi proprietaria della metà dell’immobile costruito sul terreno del marito nel corso del matrimonio, pur essendo in comunione dei beni.
Almeno è questo il principio sancito dalla Suprema Corte a seguito del rigetto di un ricorso da parte di una moglie che chiedeva il diritto alla metà dell’immobile fabbricato sul terreno del marito pur avendo contribuito al menage familiare ma non avendo dimostrato di avervi contribuito economicamente in via diretta.
Pur avendo sostenuto di essere in comunione dei beni ed avendo contribuito alla vita familiare con il suo lavoro in casa arrivando a definirlo quale “lavoro manageriale diretto alla cura dei figli”, le due corti di merito il Tribunale di Terni e poi la Corte d’Appello di Perugia avevano rigettato le sue richieste anche perché non aveva dimostrato una partecipazione economica alla fabbricazione dell’immobile la cui realizzazione era quindi da ritenersi regolata dai principi generali in materia di accessione.
Anche la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato le istanze della moglie motivando in questo modo la propria decisione: “la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno dei coniugi è di proprietà personale ed esclusiva di quest'ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione. L'altro coniuge, che pretenda di ripetere le somme spese, è onerato della prova d'aver conferito il proprio apporto economico per la realizzazione della costruzione attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni; di contro il coniuge proprietario non è tenuto a dimostrare d'aver impiegato denaro personale né personalissimo”.