lunedì 28 febbraio 2011

La Cassazione dice basta al malcostume di parcheggiare in doppia fila.


Rischia il carcere chi sequestra l’auto del vicino e non scende a spostarla

L’autovettura parcheggiata in modo tale da impedire all’altro di uscire dal cortile condominiale. può portare alla condanna per violenza privata.
È il principio stabilito nella sentenza n. 7592 del 28 febbraio 2011, emessa dalla sesta sezione penale della Suprema Corte che riporta Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”
Con la decisione in commento gli ermellini hanno, infatti, confermato la condanna nei confronti del proprietario dell’auto parcheggiata in cortile che teneva “prigioniera” la vettura del vicino, che scende a spostarla soltanto dopo un’ora
Mentre il condomino “sequestrato” va risarcito, l’altro che se la prende comoda rischia pure trenta giorni di reclusione.
«Non trovavo le chiavi», si giustificherà davanti al giudice l’automobilista fin troppo disinvolto che neppure si affaccia dal balcone per scusarsi con il vicino.
La sentenza della Cassazione penale ha statuito che l’effetto pratico della condotta addebitata è impedire per lungo tempo al vicino di allontanarsi da casa come invece egli avrebbe voluto.

Orrore per la produzione delle uova anche in Italia?


È bastato il reportage "Hatchery Horrors" di cui riportiamo il link cui consigliamo la visione solo ad adulti http://laverabestia.org/play.php?vid=1150 che è stato ripreso con una telecamera nascosta nello stabilimento di incubazione Hy-Line nello Stato dell'Iowa per indignarci sui metodi d’allevamento delle galline ovaiole e chiederci se anche in Italia siano consentite tali prassi di una crudeltà inaudita.
Il documentario è stato registrato dall'associazione Mercy For Animals che per circa due settimane ha filmato le pratiche assolutamente crudeli a cui sono sottoposti i pulcini in questo tipo di stabilimenti che risulterebbero comuni in tutto il globo.
Queste vere e proprie “fabbriche di galline ovaiole” - per rendere l’idea che i pulcini sono considerati al pari di ogni prodotto di consumo non animale - partono la loro produzione dalle incubatrici sino alla selezione finale dei pulcini. Appena usciti dall’uovo, infatti, alcuni operai hanno il compito di selezionare manualmente i maschi dalle femmine. Gran parte delle femmine, in particolare quelle sane e quelle che non muoiono a causa dei nastri trasportatori, verranno utilizzate negli stabilimenti di produzione di uova da vendere ai consumatori; i pulcini maschi che sono considerati sin da subito inutili, perché non produrranno uova e non sono delle razze giuste per diventare dei polli "da carne" convenienti per l'industria, vengono immediatamente uccisi gettandoli vivi in un tritacarne mentre altre industrie li soffocano in sacchi di plastica.
Ma non finisce qui la fiera delle crudeltà: ai pulcini femmina viene tagliata la punta del becco con un apposito macchinario che le afferra dalla testa. Questo per evitare che una volta adulte e costrette in piccolissime gabbie, non si feriscano gravemente tra loro causando danni economici per i produttori di uova.
È noto, peraltro, che il becco dei pulcini contiene terminazioni nervose, e la procedura di taglio può causare dolore sia acuto al momento, che cronico, per tutta la vita della gallina adulta.
Per non parlare poi della vita successiva delle galline in gabbia, sfruttate al massimo per 2 anni per la produzione di uova, e poi macellate. Purtroppo risulterebbe che anche gran parte delle galline allevate a terra provengono da questi stabilimenti e vengono comunque alla fine uccise.
Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” si chiede se tali prassi siano consentite in Europa ed in Italia essendo comunque possibile la realizzazione di allevamenti comunque intensivi che limitano le sofferenze di questi animali preziosi per la nostra alimentazione e se quindi non sia ora anche da parte dell’U.E., da sempre sensibile a tali esigenze, d’incentivare tali tipi di produzioni a danno di quelle che abbiamo denunciato nel presente comunicato.

domenica 27 febbraio 2011

Palme morte, Otranto cambia volto così muore la riviera


Migliaia di piante sono già state divorate da un insetto, il «punteruolo rosso».
Ecco come si presenta Otranto, l’ingresso della città, il biglietto da visita di una località che ha l’ambizione di essere centro nevralgico del turismo pugliese.
A scattare le foto è Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, che da anni denuncia l’incuria e il degrado presente sul territorio volutamente abbandonato dalle istituzioni.
Le immagini mostrano una situazione desolante.
Le palme stanno ormai morendo e le ultime rimaste sono gravemente ammalate, secche, spiumate.
Nessuna ombra sotto le piante che stanno morendo.
Danno l’addio anche quelle che sono all’interno lungo i viali, ville, giardini, lungomare. Il rhynchophorus ferrugineus ha vinto. È un’epidemia che come un’onda sta attraversando la Penisola, le sue coste soprattutto, e rischia di modificare per sempre paesaggi unici, amati e conosciuti in tutto il mondo. Le palme muoiono, vengono abbattute e bruciate. E in molti luoghi, mai più ripiantate, il «punteruolo rosso» non ha pietà: arriva alla base della pianta, si attacca, poi sale su in cima e s’infila dentro, tra le foglie della palma. Lì comincia la sua vita. Lì comincia la fine di quella della pianta.
Non ci resta che continuare ad appellarci alle istituzioni perché è ancora possibile salvare il salvabile.

Incremento dei prezzi al consumo: rischi rialzi delle materie prime


Le terribili tragedie di questi giorni che hanno visto rivolte, rivoluzioni e abbattimenti di regimi nel bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente al di là delle ragioni politiche che riguardano le singole nazioni governate da dittatori di lungo corso che prima o poi i singoli popoli avrebbero abbattuto, nascondono secondo gli analisti di mezzo mondo tutte la stessa concausa: l’impennata generalizzata dei costi delle materie prime, dal petrolio allo zucchero, dai cereali al cotone.
Oggi anche la Confcommercio ha lanciato un allarme secondo il quale gli aumenti dagli alimentari sino al greggio causeranno anche una repentina crescita dei prezzi al consumo e quindi un aumento dell’inflazione che secondo Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” come al solito andrà a colpire indistintamente i consumatori e le famiglie aggravando ulteriormente la crisi economica in atto.
L'associazione nazionale dei commercianti ha simulato i possibili effetti degli shock dei prezzi delle materie prime nei confronti dei prezzi al consumo.
Secondo l’analisi che riportiamo un aumento a febbraio del costo del petrolio del 5% rispetto alla media delle quotazioni di gennaio e una contestuale crescita dei prezzi delle materie prime del 2% e un successivo mantenimento dei prezzi di tutte le materie prime ai livelli di febbraio, a giugno prossimo, rispetto a giugno 2010, gli shock su petrolio e materie prime equivarrebbero ad un +40% circa e si tradurrebbero in variazioni tendenziali dei prezzi al consumo pari al 10,2% per gli alimentari, all'8,7% per latte, formaggi e uova, al 5% per i cereali e al 2,8% per il complesso dei beni (alimentari e non alimentari).
Il rischio di questa pericolosissima bolla inflazionistica appare quanto mai alle porte e proprio per queste ragioni ci chiediamo quali siano le iniziative urgenti che il governo centrale sta attivando visto che la nostra dipendenza dall’estero nel campo di tutte le materie prime dal petrolio sino ai cereali è a tutti nota. Non ci risulta, infatti, che allo stato siano alle porte riforme o interventi tali da impedire anche che questo pericolo si concretizzi. Come consumatori, come cittadini, dobbiamo aspettare, quindi, che gli eventi ci travolgano?

venerdì 25 febbraio 2011

28 febbraio 2011: la “Giornata Mondiale delle Malattie Rare” è alle porte ed il capogruppo IDV al senato Felice Belisario raccoglie l’appello lanciato


28 febbraio 2011: la “Giornata Mondiale delle Malattie Rare” è alle porte ed il capogruppo IDV al senato Felice Belisario raccoglie l’appello lanciato qualche giorno fa per interventi organici a tutela degli ammalati e delle loro famiglie abbandonati dalle istituzioni. Presentato atto di sindacato ispettivo nei confronti dei Ministri della Salute e dell’Economia e Finanze

28 febbraio 2011: la “Giornata Mondiale delle Malattie Rare” è alle porte e qualche giorno fa Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, aveva lanciato un appello alle istituzioni nazionali affinché fossero intraprese delle iniziative a tutela degli ammalati e delle loro famiglie abbandonate a sé stesse e sempre più in difficoltà come dimostrava una recentissima indagine statistica della Isfol - realizzata dall'Istituto per gli Affari Sociali (Ias), in collaborazione con la Federazione italiana malattie rare Uniamo-Fimr Onlus, Orphanet-Italia e Farmindustria. Come avevamo rappresentato, tale ricerca fotografa un dramma italiano che impone un ovvio e quanto mai necessario innalzamento dei livelli di guardia e di protezione sociale per gli elevatissimi costi di assistenza e della cura che le malattie rare comportano e che vanno a gravare in gran parte su famiglie che non sono sempre in grado di farvi fronte che purtroppo s'impoveriscono sempre di più.
Puntualmente il grido d’allarme è stato raccolto dall’IDV, da sempre sensibile a queste tematiche e contro ogni lobby, compreso quelle farmaceutiche, ed in particolare dal capogruppo al senato Felice Belisario che ha presentato un atto di sindacato ispettivo, il n° 2-00311 pubblicato il 22 febbraio scorso, nei confronti dei Ministri della Salute e dell’Economia e Finanze chiedendo una serie d’interventi che raccolgano le proposte avanzate dalle associazioni rappresentative.
Tra queste possiamo evidenziare:
- se il Governo intenda predisporre ed avviare un programma nazionale triennale sulle malattie rare.
- se abbia intenzione di istituire un fondo nazionale per le malattie rare, che garantisca la ricerca e lo sviluppo dei farmaci orfani e l'accesso ad essi per i pazienti, affidando compiti consuntivi e propositivi sulla gestione del fondo a un comitato nazionale per le malattie rare da insediare presso il Ministero della salute, che coinvolga rappresentanti dello stesso Ministero e dei Ministeri dell'istruzione, università e ricerca e del lavoro e politiche sociali, dell'Istituto superiore di sanità, delle Regioni e delle associazioni di tutela dei malati;
- se si ritenga che la defiscalizzazione della ricerca sui farmaci orfani possa incentivare le case farmaceutiche alla loro produzione e quindi se si voglia considerarla come un'iniziativa utile e perseguibile;
- se abbia intenzione di attivarsi al fine di ottenere la disponibilità e gratuità dei farmaci, dei dispositivi medici e di quanto sia utile per la cura sintomatica e il trattamento dei pazienti afflitti da malattie rare.
Non possiamo non auspicare che il Governo faccia conoscere le proprie intenzioni nell’immediato e inizi a dare risposte concrete a questi nostri concittadini.

martedì 22 febbraio 2011

Stop ad aumenti dei pedaggi su autostrade e grande raccordo anulare.


Annullato dal TAR del Lazio il Dpcm: viola le norme Ue

Il Tar del Lazio con la sentenza 1566/11 emessa dalla prima sezione ha annullato il decreto ministeriale che stabiliva l'aumento dei pedaggi “a forfait” per autostrade e grande raccordo anulare in gestione diretta dell'Anas, compreso il Grande Raccordo Anulare di Roma.
“ La norma va disapplicata perché contrasta con i principi comunitari dal momento che determina forfettariamente la maggiorazione per le classi di pedaggio a prescindere dall’effettivo uso dell’infrastruttura e, dunque, senza tenere conto della distanza percorsa dall’utente “.
Gli aumenti erano stati decisi lo scorso anno.
Con la sentenza di oggi, il Tar accoglie il ricorso della provincia di Roma e dichiara illegittimo e nullo il Dpcm 25 giugno 2010 con cui la presidenza del Consiglio dei ministri ha individuato le stazioni di esazione relative alle autostrade a pedaggio assentite in concessione che si interconnettono con le autostrade e i raccordi autostradali in gestione diretta dell’Anas dove applicare la maggiorazione tariffaria forfettaria prevista dall’articolo 15, comma 2, del Dl 78/2010.
Secondo Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” questa sentenza è stata una vittoria dei cittadini contro una tassa iniqua che avrebbe colpito in modo indiscriminato soprattutto i lavoratori e la filiera delle imprese in un momento di grave crisi economica".

Ennesima legge vergogna a favore delle lobby. Questa volta con un emendamento inserito nel milleproroghe si favoriscono le banche in danno di migliaia


Questa volta con un emendamento inserito nel milleproroghe si favoriscono le banche in danno di migliaia per non dire milioni di cittadini ed aziende che hanno agito o stavano per agire per recuperare le somme indebitamente percepite a titolo d’interessi anatocistici. Un colpo allo stato di diritto ed a tutti i cittadini

È una vergogna che stava per passare nel silenzio l’emendamento inserito nel decreto milleproroghe a tutela di una delle lobby più forti in Italia, quella delle banche. Con un’ennesima legge salva banche si compie un colpo di spugna nei confronti di migliaia per non dire milioni di azioni risarcitorie da parte di cittadini ed aziende titolari di conto corrente che non può essere sottaciuto ed al quale non ci si può non opporre. Così Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”.
Proprio soli due mesi fa le Sezioni Unite della Cassazione con una decisione autorevolissima e generalmente condivisa e condivisibile, la n. 24418 del 02 dicembre 2010, aveva sostanzialmente confermato il diritto da parte dei correntisti a vedersi restituire tutte le somme indebitamente percepite a titolo di interessi passivi dalle banche su tutti i conti correnti con capitalizzazione trimestrale degli interessi come noto di fatto vietata dall’art. 1283 del Codice Civile. Nella sentenza era stato ribadito il principio secondo cui la prescrizione del diritto del correntista a ottenere la restituzione delle somme, illegittimamente addebitate dalla banca sul conto corrente, decorre dal termine di estinzione del rapporto e non dalla data della singola annotazione a debito sul conto, riaffermando il divieto assoluto dell'anatocismo trimestrale e annuale garantendo in questo modo il diritto di tutti i correntisti, vittime dell’anatocismo alla restituzione dell’indebito relativo ad una prassi bancaria illegale.
Con un emendamento “criminale” perché in sol colpo può essere definito “salva banche” ed “ammazza cittadini ed aziende”, inserito nell’art. 2 quinquies, comma 9° del “decreto milleproroghe” che oggi 22 febbraio verrà votato in maniera pressoché blindata anche dalla Camera dei Deputati, viene fatto fuori e ribaltato il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte e stabilito con una norma d’interpretazione autentica secondo cui in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente con l'art. 2935 del codice civile, si interpretano nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa.
È evidente che l’emendamento con funzione interpretativa della legge getti una pietra tombale sull’autorevole sentenza della Suprema Corte ponendo le basi da una parte per far perdere le cause già avviate da migliaia correntisti per le quali si sarebbe arrivati a certa vittoria.
Rivolgiamo quindi un ultimo appello alla maggioranza affinché sia immediatamente eliminata una norma vergognosa, certamente suggerita dalla lobby delle banche che getta ancora una volta più di un ombra sulla certezza del diritto e sui diritti dei cittadini.
L’Italia dei Valori, si batterà affinché quest’ennesimo scempio in danno ai cittadini non passi inosservato e sia cancellato.

lunedì 21 febbraio 2011

Furti dalla culla. Sussiste il reato di sequestro di persona in concorso con la sottrazione di minore anche se la vittima è un neonato


Più tutele per i soggetti indifesi quali i neonati con la sentenza n. 6220 del 18 febbraio 2011 della quinta sezione penale della Cassazione che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” porta all’attenzione affinché costituisca da monito e contrasto contro un fenomeno, quale quello dei furti dalla culla, ancora diffuso nel Nostro Paese.
Secondo la Suprema Corte sussiste il reato di sequestro di persona di cui all’art. 605 del codice penale anche quando la vittima sia un neonato che per ovvie ragioni non può opporre resistenza o ribellarsi. Inoltre, per gli ermellini tale reato può ben concorrere con quello previsto all’articolo 574 del suddetto codice, la sottrazione di minori, perché diversi sono i beni giuridici protetti dalle norme incriminatrici.
Nel motivare la propria decisione la Corte parte dall’assunto secondo cui il bene giuridico che l’articolo 605 del C.p. intende tutelare non è la libertà di movimento in sé, ma la libertà fisica in quanto diritto fondamentale.
Per il minore, e ancor più per il neonato, sono i genitori che decidono per lui: se dunque il bambino è sottratto contro il consenso di mamma e papà, deve ritenersi implicito il dissenso del piccolo.
Nell’applicare tali principi al caso de quo i giudici di piazza Cavour hanno, infatti, confermato la custodia cautelare in carcere di una donna che fingendosi infermiera sottrasse un bambino dalla culla del reparto di ostetricia dell’ospedale di Nocera Inferiore (Salerno).
Il giudice di legittimità ha ritenuto anche applicabile il reato di sottrazione di minore anche perchè il diverso bene giuridico tutelato dall’articolo 574 del Codice penale è il diritto dell’affidatario dell’incapace a mantenere quest’ultimo sotto la propria custodia.

domenica 20 febbraio 2011

Alcuni prodotti da sostituire in casa che possono essere cancerogeni.


Alcune piccole attenzioni quotidiane possono essere utili per prevenire nel tempo conseguenze dannose per la nostra salute poiché è coscienza dei più che nelle nostre case, molto spesso, sono presenti oggetti e beni di ogni tipo che contengono sostanze che alla lunga possono risultare assai dannose per noi e per i nostri cari.
Così Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” porta all’attenzione delle amiche casalinghe e di qualsiasi cittadino che voglia dedicare un po’ di attenzione negli acquisti con finalità di prevenzione, un minidecalogo di accortezze che possono rivelarsi utili perché servirebbero ad eliminare dalla propria lista della spesa e quindi dalle proprie case alcune sostanze potenzialmente cancerogene o comunque dannose per la salute perché purtroppo in grado di causare allergie, asma, problemi al fegato, ai reni, al cervello e anche all’apparato riproduttivo.
Innanzitutto, va da sé che alcuni prodotti facilmente rintracciabili sugli scaffali dei supermercati contengono sostanze la cui esposizione prolungata secondo la scienza e la ricerca medica possono costituire fattori cancerogeni e tra queste formaldeide, nitrobenzene, cloruro di metilene, naftalina, sono solo qualche esempio. Quindi, come non ci stancheremo mai di ripetere, è sempre bene, per ogni acquisto consapevole, leggere le etichette e le composizioni di ogni prodotto che acquistiamo ed iniziare a seguire alcune piccoli consigli che ci permettiamo di dare.
1. Evitare quindi deodoranti per l’ambiente che contengono naftalina e formaldeide. Meglio, per deodorare i nostri ambienti, quelli a base di zeolite o fragranze naturali da oli essenziali. Per le candele profumate o ornamentali, invece, bisognerebbe tenersi lontano da quelle alla paraffina aromatizzate artificialmente perché producono sostanze pericolose, fuliggine compresa. Sempre meglio quelle a base di cera d’api con stoppino in cotone.
2. Per gli amanti della pittura, della scultura, del decoupage o del bricolage bisogna stare sempre attenti ai prodotti che utilizziamo: colle, mastici epossidici, pitture acriliche, solventi e pennarelli indelebili contengono quasi sempre sostanze potenzialmente cancerogene che ci dovrebbero far sconsigliare, quindi l’esposizione ed il contatto: quindi se non se ne può proprio fare a meno perché non esistono prodotti naturali alternativi usare sempre mascherine e guanti.
3. Questo vale anche per le pitture e vernici utilizzate per tingere gli ambienti della casa: ne esistono oggigiorno di tipi che sono a basso contenuto di composti organici volatili (Voc), ed anche alcune che non ne hanno affatto. Costano un po’ di più, ma la salute viene sempre prima.
4. Anche i detergenti per tappeti e moquette possono nascondere sostanze nocive: ma anche in questo caso esistono prodotti a base di ingredienti naturali.
5. Quanto agli insetticidi inevitabili per chi possiede un animale in casa con tutte le conseguenze del caso tra cui zecche, pulci e pidocchi è sufficiente usare prodotti a base di lindano e ricordarsi di seguire le semplici regole su come, quando e dove utilizzarli.
6. Anche nell’acquisto degli abiti si può usare qualche accortezza specie se non compriamo quelli che possono essere puliti e smacchiati con il percloroetilene. Evitiamo quindi lavaggi a secco o se proprio non ne possiamo fare a meno, cerchiamo le lavanderie che utilizzano anidride carbonica liquida o detergenti a base di succo di agrumi.
7. Arriviamo alla cottura dei cibi: il microonde è stata una rivoluzione ormai insostituibile in quasi tutte le case: dovremmo essere consapevoli che è sempre meglio cucinare le varie pietanze in contenitori di ceramica o coccio. Ma purtroppo continuiamo ad assistere a di tutto: incominciamo a bandire la plastica anche per la cottura nel microonde.
E così via, la lista potrebbe allungarsi ad un’infinità di prodotti e comportamenti, ma per oggi incominciamo da queste piccole accortezze.

sabato 19 febbraio 2011

L'allarme chili di troppo. Gli obesi nel mondo sono quasi raddoppiati in trenta anni e costituiscono un decimo della popolazione


L’obesità è una delle piaghe del nuovo millennio con incidenze pesantissime sul welfare di ogni stato per gli effetti sulla salute dei cittadini poiché già il semplice sovrappeso aumenta i fattori di rischio riguardanti le malattie cardiovascolari, il diabete e il cancro ed è all’origine di circa 3 milioni di morti premature ogni anno.
. La conferma viene da una recente indagine statistica pubblicata dalla rivista scientifica britannica “The Lancet” realizzata dai ricercatori dell'Imperial College di Londra e dell’Università di Harvard che ha analizzato comparandole sistematicamente varie ricerche delle autorità sanitarie nazionali e degli studi epidemiologici su indice di massa corporea, livelli di colesterolo e ipertensione condotti nel mondo tra il 1980 e il 2008. Gli esiti finali dello studio sono tanto sorprendenti quanto preoccupanti se nel 2008, il 9,8% degli uomini e il 13,8% delle donne sono risultati obesi, con un Body Mass Index (BMI, indice di massa corporea) superiore a 30 kg/m2 e costituiscono quasi il doppio rispetto ai dati del 1980 (erano solo il 4.8% maschi e il 7,9% femmine).
Ciò che emerge dall’indagine, è che l’ipertensione e i livelli di colesterolo sono nel complesso lievemente diminuiti, mentre l’obesità – classificata come una malattia – è generalmente aumentata.
L’importanza della ricerca può evidenziarsi sia per l’ampiezza della comparazione, che ha razionalizzato mettendo a confronto tutti i dati disponibili in ben 199 Paesi del globo, per un totale di 9,1 milioni di soggetti di età superiore ai 20 anni, che per lo straordinario arco dell’analisi che ha riguardato ben 30 anni di ricerche, alcune, peraltro, non pubblicate.
Lo studio parte dalla definizione di Indice di Massa Corporea, definito come: IMC= peso (kg) / altezza (m)2. che qualifica la densità della superficie del corpo ed è misurato in kg / m².
Per fare un esempio: un uomo alta 1 metro e 80 cm, con un peso di 85 kg ha un IMC= 85 (kg) / 1,8m(2) = 26.23 kg/m2.
Il calcolo dell’indice di massa corporea è ormai di facile reperimento poichè anche sulla rete si trovano svariati programmi gratuiti che lo consento attraverso il semplice inserimenti dei dati riguardanti altezza e peso.
Come è noto l’IMC ottimale dipende da età e sesso, ma anche da fattori genetici, alimentazione, stile di vita e attività fisica, condizioni sanitarie e altre. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e la scienza medica utilizzano varie tabelle per definire il “peso salutare” (valori medi di IMC per gli adulti,tra 18,5 e 25), “sovrappeso” (IMC tra 25 a 30) e "obesità" (IMC>30).
Il dato che impressiona è la significativa quantità di popolazione interessata da soprappeso e/o obesità: ben 1,46 miliardi di adulti nel mondo hanno un Indice di massa corporea pari o maggiore di 25 kg/m2, e tra questi 205 milioni di uomini e 297 milioni di donne sono obesi.
Il primato mondiale di obesità spetta alle popolazioni delle isole di Pacifico e Oceania (Nauru, isole Cook e Samoa, Tonga, Polinesia francese), dove il BMI medio raggiunge i 34-35kg/m2. Tra gli stati industrializzati, la crescita più impressionante di sovrappeso e obesità è stata riscontrata in USA. Nella corsa all’obesità dei Paesi ricchi, seguono Nuova Zelanda e Australia (donne), Regno Unito e ancora Australia (uomini). All’ultimo posto il Giappone, con un BMI medio pari a 22 per le donne e 24 per gli uomini.
In Europa ed in particolare Belgio, la Finlandia, la Francia, l’Italia (IMC 28 per le donne adulte) e la Svizzera non risulta esservi stato un incremento significativo dell’Indice, ma ciò non deve fare abbassare la guardia agli organismi deputati al controllo della salute pubblica.
Alla luce di tale importante ricerca che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” teneva a diffondere, affinché anche in Italia si approntino delle strategie pubbliche di prevenzione e cura per combattere il fenomeno, non possiamo non concordare nelle proposte autorevoli che vengono dalla Scienza dell'alimentazione secondo cui bisognerebbe realizzare in ogni regione centri di coordinamento di reti assistenziali che attraverso approcci multidisciplinari integrati di tipo riabilitativo, siano adeguate alla diagnosi e cura dell'obesità e dei disturbi dell'alimentazione ed articolate in unità ambulatoriali, semiresidenziali e di ricovero di riabilitazione intensiva.
In alcune regioni sta avendo successo il modello definito “hub and spoke” che prevede la concentrazione dell'assistenza di maggiore complessità in centri di eccellenza (hub) e l'invio dei pazienti ai centri periferici (spoke) in relazione alla prosecuzione del percorso terapeutico e riabilitativo.

giovedì 17 febbraio 2011

Licenziamento illegittimo se la contestazione disciplinare viene fatta dopo 2 mesi


Sulla scia dell’orientamento prevalente, per non dire univoco, la Corte di Cassazione interviene sulla legittimità di un licenziamento comminato a distanza di due mesi dal fatto disciplinarmente rilevante.
Secondo la sentenza n. 3043/2011 della sezione lavoro della Cassazione che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” segnala, è illegittimo il licenziamento se la contestazione viene fatta dopo due mesi.
La Corte ha così rigettato il ricorso di una cooperativa che aveva licenziato un socio lavoratore (dipendente), con una telegramma, contestando all’uomo un fatto avvenuto ad agosto.
Il socio lavoratore era stato reintegrato dal Tribunale di Genova che aveva stabilito l’illegittimità del licenziamento.
Gli ermellini, ritenuta applicabile la disciplina della tutela reale anche al socio lavoratore della cooperativa hanno applicato il principio secondo cui una contestazione a due mesi di distanza “dal fatto è ingiustificata e dev’essere considerata tardiva”, anche in considerazione che “la giurisprudenza di legittimità individua la ratio del principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare (desumibile dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori) nell'obbligo di osservare le regole della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, e ritiene che non sia consentito all'imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto; nel licenziamento l'immediatezza della contestazione si configura dunque quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro”.

Compensi agli ospiti del Festival di San Remo: un pugno nell’occhio ai cittadini in piena crisi


I cache degli ospiti del Festival di San Remo 2011 ed in particolare i 200.000 euro che sarebbero stati pattuiti con Roberto Benigni per la serata di oggi giovedì 17 febbraio, sono un pugno nell’occhio nei confronti dei cittadini in un periodo di grave crisi come questo.
Così Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, il quale tiene a precisare che siamo tutti consapevoli dello spessore ineguagliabile di un rappresentante della cultura e dello spettacolo italiani nel mondo, quale Roberto Benigni, il cui compenso è sicuramente giustificabile e certamente adeguato al mercato, ma non possiamo non esprimere più di qualche perplessità alla luce della situazione di precarietà dell’economia e del mercato del lavoro italiani.
A questo punto, dobbiamo ritenere che tutto il sistema dei compensi per gli ospiti che il servizio pubblico rappresentato dalla RAI dovrebbe garantire sia tutto da rivedere, se si continuano a spendere fiumi di soldi pubblici - che provengono in gran parte dal pagamento del canone - a fronte di una situazione economica generale che in larghissime fasce della popolazione è arrivata anche oltre la disperazione.

martedì 15 febbraio 2011

Il fenomeno doping in aumento anche tra amatori


Con un comunicato stampa del 24 gennaio scorso, Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, sottolineava l’aumento della vendita di farmaci di qualsiasi tipo attraverso la rete e ne indicava i gravi rischi per la salute dei cittadini.
L’appello a porre un argine al gravissimo fenomeno è stato immediatamente colto dall’on. Piefelice Zazzera di Italia dei Valori che ha tempestivamente presentato un’interrogazione al Ministro della Salute chiedendo interventi urgenti contro questa nuova piaga. Il fenomeno, come ormai è noto, ebbe origine e si sviluppò tra gli atleti di alto livello, ma la disponibilità di prodotti dopanti a buon mercato ha fatto sì che si diffondesse prepotentemente anche tra gli sportivi non professionisti ed infine in ambito amatoriale: si parla di una stima impressionante secondo la quale il 2% dei quasi 10 milioni di tesserati Coni (pari quindi a circa 200 mila persone) già ora risulti "positivo" ai controlli.
La crescita del problema è senz’alcun dubbio dipesa dalla rapida diffusione del consumo sempre maggiore e del commercio legale di farmaci e integratori assunti allo scopo di migliorare le prestazioni sportive o di modificare il proprio aspetto fisico, e da questi il passaggio a sostanze dopanti e farmaci illeciti è spesso molto breve.
La circostanza che l’Istituto Superiore di Sanità abbia dovuto creare un vero e proprio settore, il “Reparto Farmacodipendenza, Tossicodipendenza e Doping” per cercare di contrastare il doping anche tra gli amatori deve far riflettere sull’ampiezza della questione.
In attesa di risposte dal dicastero, quindi, continuiamo ad evidenziare e denunciare che la vendita di farmaci in rete sta contribuendo a far dilagare l’aumento del doping fra gli amatori ed addirittura si parla di vere e proprie organizzazioni criminali che utilizzano internet come moderna forma di spaccio per un mercato florido e fiorente quale quello delle sostanze dopanti.

Fumo passivo, diritto alla rendita per inabilità permanente


Fumo passivo, diritto alla rendita per inabilità permanente anche se la malattia non rientra tra quelle individuate dalla legge come possibile conseguenza all’esposizione continuativa al fumo. Riconosciuto il diritto alla rendita permanente al lavoratore che ha subito il fumo passivo per decenni sul posto di lavoro.
Quanti lavoratori sono stati o sono costretti a subire il fumo passivo in ufficio? E quanti si sono ammalati di patologie polmonari in conseguenza di anni ed anni di fumo delle sigarette altrui senza vedersi riconosciuto nemmeno il diritto ad un centesimo d’indennità per la malattia dovuta ad un ambiente di lavoro malsano e dannoso per la propria salute?
Finalmente la sezione lavoro della Cassazione con la sentenza numero 3227 del 10 febbraio 2011 fa giustizia a tanti dipendenti ammalati di patologie polmonari conseguenti al fumo passivo subito nel corso degli anni nel proprio ufficio, ritenendo - sulla scorta dell’anamnesi lavorativa e patologica e dei più recenti studi epidemiologici – possibile la dimostrazione della stretta correlazione tra malattia polmonare e esposizione al fumo, anche se la patologia lamentata non è inserita nell’apposita tabella tra quelle tumorali individuate come possibili conseguenze dell’esposizione continuativa al fumo passivo.
I giudici di piazza Cavour con l’importante sentenza che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” porta in evidenza, hanno confermato la decisione della Corte di Appello di Catania che ha riconosciuto ad un dipendente comunale che aveva lavorato per cinque ore al giorno per oltre trenta anni in un locale non areato subendo il fumo passivo di un collega, il diritto alla costituzione di una rendita per inabilità permanente nella misura complessiva del 47 %. Come rilevato da un consulente tecnico d’ufficio esperto in pneumologia, il lavoratore risultava infatti affetto da asma bronchiale ed enfisema polmonare attribuibili, con elevato grado di probabilità, in base agli esami clinici ed epidemiologici, all’esposizione protratta per diversi decenni al fumo passivo.
Alla sentenza d’appello aveva proposto ricorso per Cassazione l’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) poiché l’ente aveva ritenuto non persuasiva l’attribuzione dell’indennizzabilità di una patologia professionale non rientrante tra quelle tumorali individuate per legge come possibili conseguenze dell’esposizione continuativa al fumo passivo. Peraltro, secondo l’ente previdenziale la broncopatia non doveva essere riconosciuta come malattia professionale in quanto il rischio dell’esposizione al fumo passivo in ambiente di lavoro è un rischio connesso al lavoro, ma non un rischio specifico della lavorazione.
Gli ermellini, invece, ribaltando l’impostazione dell’INAIL, hanno applicato il principio secondo cui la tutela antinfortunistica del lavoratore si estende anche alle ipotesi di rischio specifico improprio che pur non insito nell’atto materiale della prestazione lavorativa riguarda situazioni ed attività strettamente connesse con la prestazione stessa.
Secondo la Suprema Corte, infatti, i fattori di rischio in caso di malattie non rientranti tra quelle tumorali individuate per legge come possibili conseguenze dell’esposizione continuativa al fumo passivo, c.d. non tabellate, comprendono anche quelle situazioni di dannosità che seppur ricorrenti anche per attività non lavorative costituiscono però un rischio specifico per il lavoratore che svolge attività lavorativa assicurata.

lunedì 14 febbraio 2011

Conferme dalla Cassazione: la postazione di accertamento elettronico dell’autovelox va segnalato a tutti con congruo anticipo


Arrivano conferme dalla Suprema Corte in merito al corretto utilizzo dell’autovelox: già dal 2005 la legge 160/07 aveva ribadito la necessità dell’”avvistabilità” delle postazioni di rilevamento che ai fini della sicurezza stradale dovevano comunque essere “preannunciate” agli utenti della strada a pena d’invalidità delle sanzioni elevate in spregio a tale dettame legislativo.
La norma, a maggior ragione dev’essere rispettata anche quando gli enti accertatori, oseremmo dire furbescamente, installano le apparecchiature a ridosso delle intersezioni con altre strade e quindi devono essere indicate anche agli automobilisti provenienti da altre vie che s’immettono in quella sorvegliata. Così la sesta sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 680/11, che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” riporta.
Nella circostanza esaminata dai giudici di piazza Cavour è stato infatti, accolto con rinvio, il ricorso dell’automobilista multato sulla strada statale a ridosso dell’intersezione con quella provinciale.
Secondo gli ermellini, intanto non basta un solo segnale sull’arteria di collegamento oggetto di rilevamento elettronico della velocità dei veicoli, avendo il presunto trasgressore indicato sin dal ricorso introduttivo in opposizione a sanzione amministrativa di non aver incontrato alcuna segnalazione della postazione dell’autovelox. Né, al contrario il verbale di contestazione, che pcome è noto fa fede fino a querela di falso, aveva attestato la sussistenza della specifica segnaletica che invece, in base alla citata disposizione del 2007, deve essere garantita in modo specifico, e ad un’adeguata distanza, fra l’intersezione tra le strade (nella specie la provinciale e la statale) e la postazione di accertamento elettronico.
Non avendo dimostrato la presenza della segnaletica che preannuncia l’autovelox il cui onere della prova spetta all’ente accertatore, la sanzione al codice della strada per superamento del limite di velocità risulta evidentemente illegittima.

domenica 13 febbraio 2011

Mandare “a fanculo” il capo? Secondo la Cassazione lo può fare l’impiegato modello


Qualcuno dirà che è sempre maleducazione mandare “a fanculo” un’altra persona, e specie sul posto di lavoro, se quella persona è il capo, il comportamento dovrebbe essere ancor più censurabile. Ma se il dipendente è sempre stato ligio al dovere, insomma se è un impiegato modello un “fanculo” a “carattere episodico” è concesso e quindi il lavoratore non può essere licenziato.
Secondo la Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 3042 che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” riporta, "un comportamento, per quanto grave, se ha carattere episodico e se è riconducibile ad un dipendente che non ha mai dato luogo a censure comportamentali, non può fare arrivare ad un giudizio di particolare gravità" tale da determinare il licenziamento disciplinare. È questo il principio espresso dai giudici di piazza Cavour nel rigettare il ricorso di una casa di cura di Catanzaro che aveva intimato il recesso dal rapporto di lavoro ad una dipendente alla quale sarebbero state addebitati comportamenti disciplinarmente rilevanti tra i quali l’aver usato espressioni offensive nei confronti di un superiore.
La donna aveva vinto entrambi i giudizi di merito e si era vista reintegrare nel posto di lavoro, ma la propria azienda aveva proposto comunque ricorso per cassazione
Gli ermellini hanno quindi respinto ritenendo che la sentenza impugnata "è particolarmente diffusa per escludere che quei fatti, in via generale punibili con sanzione conservativa, ricoprissero quel carattere di particolare gravità che giustificherebbe il licenziamento", ed hanno peraltro precisato che un lavoratore modello, "per quanto possa avere sul posto di lavoro un comportamento grave", se è di "carattere episodico" non merita il licenziamento.

sabato 12 febbraio 2011

Gli azionisti ALITALIA si oppongono alla richiesta di archiviazione nei confronti di Berlusconi


I piccoli azionisti, con l’avv. Francesco Toto, hanno proceduto ad inoltrare l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento contro l’on. Silvio Berlusconi ed altri. Il Pm, dott. A. Nello Rossi, così motiva in sintesi la sua richiesta: l’on. Berlusconi non avrebbe diffuso notizie false ma, se lo avesse fatto, avrebbe esercitato prerogative parlamentari consone al suo ruolo ministeriale.
A comunicarlo è Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”.
L’avv. Toto – si legge nell’opposizione - contesta alla radice l’impianto “difensivo” del P.M. il quale incorrerebbe in errori di valutazione di grossolana evidenza nel comportamento tenuto dall’on. Berlusconi al tempo premier in pectore. Una per tutte: avere divulgato in maniera martellante, suadente e con ogni mezzo mediatico disponibile, il salvataggio ed il rilancio della Compagnia di Bandiera – assumendosene pure il merito – è notoriamente ed evidentemente “notizia falsa e non veritiera”.
Questa nota, indipendentemente dalle ulteriori dettagliatamente enucleate nell’atto di opposizione, è sufficiente a marchiare la condotta dell’on. Berlusconi di scorrettezza e slealtà nei confronti dei cittadini italiani, non solo degli azionisti, i quali oggi si vorrebbero privare pure del diritto ad esprimersi in un legittimo contraddittorio ed in un giusto processo.
L’avv. Toto sarà a sua volta coadiuvato nella difesa dall’avvocato Francesco D’Agata del Foro di Lecce.
Ora il fascicolo passa al GIP il quale, sarà chiamato a valutare le avverse osservazioni e soprattutto le prove già prodotte nel fascicolo del P.M.

martedì 8 febbraio 2011

Autovelox infallibile? Ma che! Sanzionato dal comando della Polizia Municipale di Oria (Br) un Fiat Doblò perché andava a 1230 km/h, oltre la velocità


La battaglia di Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” contro le multe seriali ed a raffica utilizzate dagli enti allo scopo di “far cassa” prima che per la sicurezza stradale, utilizzando strumenti di rilevazione elettronica tipo autovelox, telelaser e photored oggi trova una conferma nel caso alquanto singolare che ci è stato portato all’attenzione.
Questa volta, un Fiat Doblò è stato beccato dal Comando della Polizia Municipale del Comune di Oria (Br) alla velocità, udite udite di ben 1230 km/h ossia oltre la velocità del suono (pari a 1.193,4 km/h) superando il limite massimo consentito per quel tratto di strada di 1078 km/h.
Non ci credevamo finché non abbiamo visto con i nostri occhi il verbale che è stato notificato alla società proprietaria del mezzo che risulta chiaramente non essere un aeroplano.
Ancora una volta appare sempre più evidente come questi strumenti elettronici e lo stesso sistema di gestione di questo tipo d’infrazioni faccia acqua da tutte le parti non consentendo la certezza fattuale, oltreché giuridica, di una sempre corretta rilevazione e contestazione delle infrazioni, poiché la necessità di rimpinguare i bilanci comunali, molto spesso spinge i comuni e gli alti enti locali a mettere al primo posto esigenze di cassa con conseguenti errori materiali, vizi di forma e violazioni della normativa e dei regolamenti per la contestazione delle infrazioni, piuttosto che la sicurezza stradale e la certezza delle verbalizzazioni ed il diritto alla difesa dei cittadini.
Non ci resta che continuare a denunciare casi di errori simili, ormai decine per non dire centinaia in tutta Italia e continuare a predisporre i ricorsi gratuitamente ai cittadini, sempre più beffati dalle pubbliche amministrazioni accertatrici.

"Alberi sul margine della strada troppo vicini alla carreggiata? La Cassazione penale di fatto dichiara fuorilegge migliaia di strade"


Secondo la Suprema Corte che ha condannato un addetto dell’Anas i tronchi pericolosi, devono essere situati ad almeno sei metri dall'asfalto o in alternativa ci deve essere il guardrail
Quante vittime della strada piangiamo ogni anno perché a bordo di veicoli terminano la propria corsa contro gli alberi posti sul margine della carreggiata? Sicuramente centinaia, per non parlare di tanti feriti, anche gravi perché finiscono contro tronchi molto spesso non riparati da protezioni.
Con la recentissima sentenza della Cassazione penale che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” porta all’attenzione, da oggi i proprietari o gestori delle strade dovranno osservare ancora maggiori attenzioni, perché se gli alberi si trovano entro sei metri su tutte le strade extraurbane, possono considerarsi fuorilegge.
Gli ermellini, con la decisione in esame, partendo dall’analisi dell’articolo 26 comma 6 del regolamento d’attuazione del codice della strada secondo cui “la distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare alberi lateralmente alla strada, non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 m” hanno ritenuto che tale norma avesse effetto anche retroattivo e si applicasse, quindi anche ai fusti arborei preesistenti dalla data di entrata in vigore del citato regolarmento ossia l’1 gennaio del 1993, superando così un equivoco durato ben 17 anni.
Nel caso di specie, i giudici della Suprema Corte decidendo sulla condanna di un capo cantoniere dell’Anas di Foligno, hanno ritenuto necessaria ai fini del superamento della colpevolezza dell’addetto - condannato ad un anno e sei mesi - la messa in sicurezza, attraverso la predisposizione di “un idoneo guardrail nel tratto di strada dove si trovava la pianta” ed in particolare la statale “centrale umbra” che presenta ai margini una bellissima fila di alberi secolari ma che costituiscono un evidente pericolo per gli automobilisti.
Lo “Sportello dei Diritti”, ritiene che l’importante decisione, oltrechè rappresentare un evidente invito a tutti gli enti proprietari e gestori delle strade extraurbane a porre in essere tutte le più idonee cautele per la messa in sicurezza delle stesse attraverso la predisposizione dei guardrail nei tratti dove sono presenti alberi a meno di sei metri dalla carreggiata, apre la possibilità di poter procedere alle richieste di risarcimento danni per tutte le vittime e gli eredi di chi ha perso la propria vita o a riportato lesioni in conseguenza dello scontro con piante sul ciglio delle strade ove non sia intervenuta la prescrizione.

domenica 6 febbraio 2011

Bisfenolo A: pubblicata la norma sulla Gazzetta ufficiale europea che vieta l'uso nei biberon. Dal 1 marzo stop alla produzione


Prevenire è sempre meglio che curare. La frase di uno spot, ma anche un saggio consiglio per tutti e soprattutto per le giovani madri alle quali si rivolge la segnalazione che Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, comunica in merito ad un allarme inserito nella Gazzetta ufficiale dell'Unione Europea del 29.1.11 (serie L, pagina 26, direttiva 2011/8/UE della Commissione del 28 gennaio 2011 che modifica la direttiva 2002/72/CE), ossia il divieto dell'impiego del Bisfenolo A nei biberon di plastica.
Era da qualche mese che alcuni paesi occidentali ed in particolare la Francia, la Danimarca e il Canada avevano vietato l’impiego del BpA nei biberon, mentre gli Stati Uniti si erano già limitati ad individuare alcune restrizioni.
L’esecutivo europeo, rappresentato dalla Commissione Europea, spesso attenta a questi problemi, rilevate le incertezze della ricerca scientifica sulla pericolosità dell'esposizione al Bisfenolo-A (BpA) per i bambini che utilizzano biberon di policarbonato, ha ritenuto opportuno replicare quanto già fatto dai paesi suindicati in virtù del principio di precauzione (introdotto dal regolamento CE n. 178/02 noto come General Food Law) che normalmente viene adottato nel caso in cui vengono ravvisati rischi per la salute dei consumatori o incertezze scientifiche in merito.
La Commissione ha appurato anche che l’impatto economico sulle società produttrici di biberon sarà assai limitato poche a seguito di un’analisi di mercato è stato verificato che sono già state avviate procedure volontarie di sostituzione del materiale da parte degli stessi fabbricanti.
Secondo quanto stabilito dalla citata direttiva europea che entra in vigore oggi 1 febbraio 2011, quindi, tutti i biberon contenenti BpA presenti sul mercato dell'UE dovranno essere sostituiti entro la metà del 2011 ed gli Stati membri saranno obbligati nell’immediato ad adottare e pubblicare entro il 15 febbraio 2011 le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alle nuove regole. Inoltre, dal 1 marzo 2011 ne sarà vietata la fabbricazione, e a partire dall'1 giugno 2011 la commercializzazione e l'importazione nell'Unione di materiali e oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari non conformi ai dettami della direttiva.

sabato 5 febbraio 2011

Segnalazioni di sprechi, mala amministrazione, beni pubblici abbandonati: le foto di quel che rimane dell’ex arena di San Cataldo, marina leccese





Continuano a giungere a Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” da tutto il territorio nazionale segnalazioni in merito a sprechi, mala amministrazione e beni pubblici abbandonati.
Questa volta ci vengono inoltrate le fotografie dell’ex Arena di San Cataldo, la marina dei leccesi del capoluogo, i cui ruderi si trovano di fronte alla bellissima baia omonima.
La stessa sorge su un’area di proprietà del comune di Lecce di ben 2mila metri quadri proprio di fronte al Porto di Adriano anch’esso, guarda caso, abbandonato alla rovina ed al proprio triste destino ed il cui ricordo se non interviene nessuno, purtroppo sarà cancellato, dopo ben duemila anni, dalle onde del mare.
L’Arena risulta, invece, dismessa da circa 45 anni dopo essere stata data in concessione a privati per qualche anno: oggi rappresenta un altro pugno nell’occhio per i turisti e i cittadini nel mesto abbandono in cui versa la marina leccese. Non ci resta che rivolgere un appello all’amministrazione comunale di Lecce affinché anche a questo bene sia riaffidata una qualsiasi funzione sociale.

venerdì 4 febbraio 2011

Prime sentenze di condanna per lite temeraria dopo la riforma del Codice di procedura civile


Condannata a pagare 10 mila euro la moglie che porta il marito in tribunale ex art. 96 terzo comma del c.p.c. se ha abusato dello strumento processuale

Fare causa temerariamente abusando dello strumento processuale e del (preziosissimo) tempo dei giudici può costare ancora più caro, da quando è stata introdotta dall’art. 45, comma 12, della Legge 18 giugno 2009, n. 69 la possibilità di condanna in sede di liquidazione delle spese processuali, anche d’ufficio e quindi senza apposita richiesta da parte di una delle parti in causa, al pagamento di una somma determinata equitativamente dal giudice in casi simili.
Così Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, segnala una delle prime sentenze in materia, la 98/2011 della prima sezione civile del Tribunale di Varese, che potrà costituire da monito per chi senza alcun valido motivo contribuisce ad ingolfare il già macchinoso apparato giudiziario, perché chi abusa dei processi evidentemente danneggia non solo gli altri soggetti coinvolti nell’azione, perché ritarda l’accertamento della verità, ma inflaziona anche tutto il sistema-Giustizia.
Quindi, può ritenersi che l’ultima riforma del processo civile ha introdotto una norma a carattere sanzionatorio per tutelare la totale funzionalità del sistema, che si risolve in una pena pecuniaria da applicare d’ufficio.
Accade, infatti, soventemente, nel Paese delle carte bollate che lo strumento giudiziario sia utilizzato con effetti dilatori ed addirittura quasi per dispetto, come succede assai spesso tra coniugi, così come nel caso di specie nel quale tra moglie e marito era stata avviata una vera e propria guerra giudiziaria che li aveva visti avviare ben quattro diversi procedimenti in due anni.
In particolare nella questione affrontata nel azione di cui alla sentenza in commento, la signora si era opposta ad un decreto ingiuntivo relativo alla riconsegna di un impianto di proprietà del marito ed a lei affidato in comodato senza termine e perciò suscettibile di revoca ad nutum.
Nonostante ciò l’ex aveva citato il marito pur avendo contezza dell’inutilità dell’opposizione e quindi, il giudice, ritenuta l’infondatezza e soprattutto la colpevolezza con cui ha agito l’attrice, ha condannato quest’ultima - così come previsto dal terzo comma dell’articolo 96 del codice di procedura civile - al pagamento di una somma ulteriore quantificata in ben 10mila euro.

giovedì 3 febbraio 2011

Cassazione, giro di vite contro l’azienda che sfrutta il lavoro nero


Anche il fisco all’attacco delle aziende che sfruttano il lavoro nero se verrà applicata con regolarità la sentenza n. 2593 del 3 febbraio 2011 della Cassazione, un ulteriore strumento indiretto nelle mani dello Stato - spiega Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” – per combattere questa piaga sociale.
La suprema corte chiarisce che è possibile l’accertamento induttivo per Iva e Irap nei confronti dei datori di lavoro che sfruttano il lavoro nero applicando un principio logico elementare: corrispondere lo stipendio non contabilizzato più che essere assimilabile ad un costo è il segnale di una maggior volume d’affari e quindi di maggiore produttività.
Nel caso di specie, la sezione tributaria ha rigettato il ricorso di un’artigiana pugliese proprietaria di una manifattura di biancheria, che aveva pagato in nero un dipendente, quindi, senza contabilizzarlo.
A seguito di tanto, l’agenzia delle entrate aveva effettuato un accertamento per le maggiori Iva, Irap e Irpef dovute. In prima istanza la commissione provinciale tributaria cui si era rivolta aveva annullato l’atto impositivo. Ma in appello innanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia la situazione era stata già ribaltata e confermato l’atto di accertamento.
La contribuente ha allora proposto ricorso per cassazione sostenendo che comunque il lavoratore in nero costituiva un costo deducibile. Gli ermellini hanno respinto integralmente il gravame, sostenendo che non solo il lavoratore non dichiarato non è un costo deducibile ma che tale circostanza fa senz’altro presumere un maggior reddito legato a un maggiore volume d’affari.
Nella motivazione è possibile, infatti, leggere che: “Il divieto di doppia presunzione attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice e non può ritenersi, invece, violato nel caso, quale quello di specie, in cui da un fatto noto (presenza di un dipendente non regolarmente assunto per il quale la stessa contribuente ha ammesso la corresponsione di una retribuzione non contabilizzata) si risale – peraltro in funzione di una presunzione legale, seppur relativa- a un fatto ignorato (maggiore redditività di impresa e non semplicemente maggior costi per retribuzioni, come ha prospettato in memoria la ricorrente)”.

mercoledì 2 febbraio 2011

Italia:da un’ indagine Istat aumenta il gap del reddito disponibile delle famiglie nelle regioni italiane ed il numero dei disoccupati


Le forti preoccupazioni sullo stato dell’economia delle famiglie italiane e sull’aumento della disoccupazione, specie tra i giovani, da una parte e dall’altra l’evidente immobilismo governativo che tra “bunga bunga” ed aumento dell’incertezza del clima politico da mesi ormai palesa un Paese fermo, inducono Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” a riportare all’attenzione dei cittadini e dei media le ultime rilevazioni ISTAT riguardo all’aumento del gap tra reddito disponibile delle famiglie e sullo stato dell’occupazione in Italia.
La statistica parte dall’analisi del reddito disponibile delle famiglie italiane nel triennio 2006-2009 che secondo l’istituto nazionale di ricerca si è concentrato, in media, per circa il 53 per cento nelle regioni del Nord, per il 26 per cento circa nel Mezzogiorno e per il restante 21 per cento nel Centro. Tra il 2006 e 2009 tale distribuzione ha mostrato alcune variazioni che hanno interessato principalmente il Nord-ovest, il quale ha visto diminuire la sua quota di 0,6 punti percentuali (dal 31,1 del 2006 al 30,5 per cento nel 2009) a favore di Centro e Mezzogiorno (+0,4 e +0,2 punti percentuali rispettivamente). Solo la quota di reddito disponibile delle famiglie del Nord-est non è variata rimanendo stabile al 22 per cento.
Uno dei dati che avrebbe dovuto far riflettere con maggiore attenzione chi siede da anni al timone del Paese è quello sul progressivo ridursi del tasso di crescita del reddito disponibile nazionale, che è passato da un incremento del 3,5 per cento del 2006 ad una flessione del 2,7 per cento nel 2009, la prima dal 1995. L’impatto è stato più forte nel settentrione (-4,1 per cento nel Nord-ovest e -3,4 per cento nel Nord-est) e più contenuto al Centro (-1,8 per cento) e nel Mezzogiorno (-1,2 per cento). In generale, tale diminuzione è essenzialmente da attribuire alla marcata contrazione dei redditi da capitale, anche se, in alcune regioni (in particolare Piemonte e Abruzzo), un importante contributo negativo è venuto dal rallentamento dei redditi da lavoro dipendente.
Per quanto riguarda lo stato dell’occupazione e sulla sola base dei dati disponibili e perciò provvisori il numero di occupati a dicembre 2010 (dati destagionalizzati) risulterebbe invariato sia rispetto a novembre 2010 sia su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 57 per cento, risulta stabile rispetto a novembre e in riduzione di 0,1 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In realtà, però, se si va ad esaminare il numero delle persone in cerca di occupazione, risulta in diminuzione dello 0,5 per cento rispetto a novembre, e in aumento del 2,5 per cento rispetto a dicembre 2009 ciò perché aumenta la platea di tutti quei cittadini che ormai sono stanchi di cercare un lavoro perché, in poche parole non lo riescono a trovare. Il tasso di disoccupazione, pari all’8,6 per cento, rimane stabile rispetto a novembre; in confronto a dicembre 2009 il tasso di disoccupazione registra un aumento di 0,2 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 29 per cento, con un aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 2,4 punti percentuali rispetto a dicembre 2009.
Il numero di inattivi di età compresa tra 15 e 64 anni a dicembre 2010 aumenta dello 0,1 per cento rispetto sia a novembre sia a dicembre 2009. Il tasso di inattività, pari al 37,6 per cento, è invariato rispetto al mese precedente e in diminuzione rispetto a dicembre 2009 (-0,1 punti percentuali).
Dopo la lettura di questi dati, che confermano il grave stato di crisi dell’economia italiana che va a colpire in maniera determinate le famiglie ed i giovani non ci resta che ribadire la necessità di una serie d’interventi improcrastinabili che al momento, in un clima politico così incerto appaiono quantomai lontani.