giovedì 3 ottobre 2013

Acqua all’arsenico

Acqua all’arsenico. Condannato il gestore del servizio che ha diritto solo alla metà del canone e a pagare all’utenza le bottiglie di acqua minerale Un‘importante passaggio nella vicenda dell’acqua all’arsenico che coinvolge particolarmente alcune zone del Centro Italia è segnato dalla sentenza del giudice di Pace di Viterbo n. 895/13 pubblicata lo scorso 25 settembre, ma la vicenda potrebbe avere dei riflessi tutte le volte che il servizio idrico non viene effettuato conformemente a quanto dichiarato contrattualmente o secondo le norme di legge e regolamentari anche in ragione della tutela della salute dei cittadini. Secondo il magistrato onorario Leonardo Colonnello, al gestore che cura il servizio dev’essere pagato solo il 50 % dell’importo del canone dovuto dall’utente per tutto il periodo in cui le autorità hanno accertato la non potabilità a causa della concentrazione di floruri al di sopra dei limiti di legge. Ed in più la società è condannata al risarcimento del danno in favore dei consumatori che viene liquidato in via equitativa nella misura di mille euro caduno, perché costretti a comprare confezioni di costose acque minerali per bere e cucinare. Nel caso in questione è stata accolto l’atto di citazione notificato da tre utenti. La società che eroga il servizio aveva eccepito il difetto di giurisdizione assumendo che non si trattava di cognizione del giudice ordinario, ma di quello amministrativo, e che comunque se c’erano responsabilità dovevano essere determinate in capo all’autorità d’ambito. Osserva correttamente il giudice ritenutosi competente, che tra l’azienda e il consumatore sussiste un contratto di somministrazione che appartiene alla categoria a prestazioni corrispettive: il gestore risulta inadempiente perché l’acqua non può essere bevuta e il danno rientra nella sfera del diritto alla salute dell’utente e, dunque, ha diritto in base degli articoli 128 e 129 del codice del consumo (Decreto Legislativo 206/2005) di metà dell’importo delle bollette (perché comunque i consumatori hanno usufruito del servizio per lavarsi). La sentenza, come detto, infine, statuisce il diritto al risarcimento del danno che è quantificato secondo equità in mille euro pro utente, in virtù dell’esborso forzoso per l’acquisto di confezioni di acqua in bottiglia mentre per i danneggiati la spesa ammonterebbe a 438 euro l’anno. Non è stata accordata la restituzione della quota parte di canoni sborsati e non dovuti solo perché manca la prova dell’effettivo esborso, mentre l’azienda è stata comunque condannata alle spese di causa. Giovanni D'Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, associazione che già assiste numerosi cittadini nell’analogo caso dell’”acqua rossa” nel comune di Melendugno contro l’acquedotto pugliese, che ha però avuto risvolti anche in sede penale, ritiene che i principi applicati dal giudice di Pace di Viterbo possano essere applicati analogicamente in tutti i casi simili. Per tali ragioni, lo “Sportello dei Diritti”, oltreché invitare i gestori a prendere atto di tale decisione che rende giustizia, almeno in parte nei confronti dell’utenza costretta a vedersi sgorgare dai rubinetti liquido non conforme alle prescrizioni di legge e regolamentari ed alla quale comunque si continua a richiedere la tariffa piena per il servizio idrico fornito, preannuncia la predisposizione di class action per il rimborso della quota eccedente dei canoni e per il risarcimento dei danni patiti.

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